“In Italia, se ci si radicalizza, si viene espulsi, nulla di più semplice”
Nella Penisola, il tasso di jihadisti è più basso di quello di altri paesi europei. E l'Italia non ha subito nessun attentato di matrice islamica sul suo territorio. Perché? Le risposte dell'esperto italiano Lorenzo Vidino, intervistato dal giornale della Svizzera francese Le TempsCollegamento esterno.
Dal 2001 l’Italia è il solo grande paese occidentale che non è stato colpito da attentati terroristici islamisti. Un’eccezione che persiste grazie a una combinazione unica di repressione da parte della polizia e fattori demografici. Le spiegazioni di Lorenzo Vidino,Collegamento esterno esperto di jihadismo della George Washington University ed ex coordinatore della Commissione italiana per lo studio della radicalizzazione.
+ l’articolo originale in francese pubblicato su Le TempsCollegamento esterno
Le Temps: L’Italia sembra essere stata risparmiata dal fenomeno jihadista. Si tratta solo di un’impressione o l’Italia è veramente un’eccezione?
Lorenzo Vidino: Sì, è un fatto. Non vi sono stati attacchi terroristici islamisti in Italia. Sono state arrestate alcune persone che progettavano attentati, ma non vi è stato nessun attacco.
Detto ciò, a mio avviso l’aspetto più importante sono le cifre che riguardano le partenze di combattenti verso i diversi fronti della jihad. Sono dati empirici, scientifici. In Svezia sono stati registrate circa 300 partenze, in Austria 350, in Svizzera circa 190, in Francia oltre 1’500, in Germania un migliaio. E in Italia? Solo 129. Questa cifra è incredibilmente bassa per un paese di 60 milioni di abitanti e con almeno due milioni di musulmani. Inoltre, su questi 129, ci sono dei marocchini che hanno trascorso diversi anni in Francia prima di partire per la Siria o ancora due italiani nati in Svizzera – a San Gallo e a Zurigo – e partiti per la Siria nel 2014 e nel 2015. Sull’insieme delle partenze, vi sono solo 18 cittadini italiani.
Secondo me, queste cifre rappresentano un indicatore migliore dell’eccezione italiana rispetto all’assenza di attentati.
Tuttavia, ancor prima degli attentati dell’11 settembre 2001, l’Italia era un focolaio dell’ideologia jihadista…
La moschea di Via Jenner a Milano era in effetti il principale focolaio del jihadismo diretto in Bosnia negli anni 1990. Il primo attentato suicida in Europa è stato commesso nel 1995 a Rijeka (Croazia) da un jihadista proveniente da lì. La moschea è stata quindi perquisita e oltre 50 persone sono state arrestate. L’Italia è stato uno dei primi paesi europei assieme alla Francia ad aprire gli occhi su questo fenomeno. Il suo grande successo è stato di fare in modo che questa moschea non attirasse nuove reclute. La pressione della polizia l’ha costretta a rinchiudersi su sé stessa.
“In Italia non abbiamo avuto gli stessi fattori di radicalizzazione che altrove in Europa”.
Vi è poi la demografia dell’Italia, diversa da quella del nord dell’Europa. La maggior parte dei giovani partiti per la jihad dal Belgio, dalla Francia, dalla Svizzera, ecc. fa parte della seconda generazione di immigrati. In Italia questa seconda generazione non esisteva fino a poco tempo fa. I primi immigrati musulmani, per lo più celibi, sono arrivati in Italia negli anni 1990. Solo oggi sta apparendo una seconda generazione nata qui. Da questo punto di vista, l’Italia assomiglia alla Grecia, al Portogallo o alla Spagna. Non abbiamo avuto gli stessi fattori di radicalizzazione che altrove in Europa.
Ha parlato della pressione della polizia. Per quali aspetti il metodo italiano è diverso o più efficace?
Si focalizza prima di tutto sui cosiddetti “cattivi maestri”, quei mentori che spingono i giovani sulla via della radicalizzazione. Se non sono italiani – e la grande maggioranza non lo è – sono sistematicamente espulsi. È la tolleranza zero: se sei radicalizzato o se radicalizzi altre persone e non sei italiano, vieni espulso. Nulla di più semplice.
Dal primo gennaio 2018, 109 persone sono state espulse dall’Italia per minaccia alla sicurezza nazionale. Dal 2015, si parla di oltre 350 persone espulse, ovvero due alla settimana. È uno degli strumenti più importanti a disposizione del Governo italiano. Questo strumento è previsto da una legge adottata dopo gli attentati di Londra del 2005. La deportazione è decisa tramite decreto ministeriale, senza possibilità di ricorso sospensivo. La misura è applicata solo agli stranieri. Essendo però molto difficile diventare italiani se i genitori non lo sono, questo strumento può essere utilizzato nei confronti della maggioranza dei cattivi maestri.
Generalmente, il decreto è firmato dal ministro il pomeriggio, la persona viene arrestata verso l’una o le due di notte e espulsa verso le cinque o le sei del mattino. A volte ciò avviene all’uscita della prigione dove si trovava. La maggior parte di queste persone è rinviata in Marocco, in Tunisia, in Bosnia, in Kosovo, in Albania o in Macedonia. Sono tutti paesi coi quali l’Italia ha buone relazioni e accordi di espulsione che funzionano bene.
Per espellere questi influenzatori della jihad, bisogna però sapere chi sono e dove si trovano…
Esattamente. La polizia italiana ragiona da sempre in termini di reti, di reti internazionali. È un’eredità della lotta antimafia e del terrorismo degli anni di piombo. È una cultura, uno stato d’animo. Si sa che se si arresta qualcuno, l’indomani bisognerà aprire un’inchiesta sulla sua cerchia di amici o sulla sua famiglia.
“Da sempre la polizia italiana ragiona in termini di reti. È un’eredità della lotta antimafia e degli anni di piombo”.
Inoltre, bisogna rilevare la stabilità impressionante del personale di polizia. Il capo della Digos è in carica dal 1995. È un’enciclopedia umana del terrorismo. I responsabili delle forze dell’ordine si conoscono tutti e lavorano molto bene assieme, da tanto tempo. È quasi una famiglia, è molto italiano in un certo senso. Se ad esempio si fa un paragone con l’Fbi, ci si rende conto che negli Stati Uniti il personale cambia molto più rapidamente, a tutti i livelli.
Quindi nell’insieme questo cocktail repressivo funziona: vi è una posizione aggressiva, delle leggi efficaci, una grande conoscenza della polizia e una quasi unanimità politica su queste misure.
Vi sono stati alcuni casi di terrorismo legati alla Svizzera. Cosa ne pensano gli italiani?
Hanno un po’ tendenza a pensare che la Svizzera sia un po’ ‘molle’ nell’affrontare questo problema. La percezione degli italiani è che gli svizzeri autorizzino persone problematiche ad installarsi nei pressi della loro frontiera. Vi sono stati casi di persone espulse dall’Italia che sono venute a stabilirsi in Svizzera. Ad esempio, il figlio di un imam di Varese è andato ad abitare in Ticino prima di partire per la Siria. Non so cosa ne sia stato di lui.
Anche la società italiana però cambia. Il modello antiterrorista sarà ancora così efficace in futuro?
È vero. Qui non vi sono periferie come quelle francesi, anche se la situazione sta parzialmente cambiando. Il sistema delle espulsioni non è applicabile per i cittadini italiani e neanche per i minorenni. Uno dei terroristi uccisi durante l’attentato al ponte di Londra nel 2017 era il figlio di una convertita italiana, che è voluto partire in Siria e che non poteva essere espulso.
Vi è anche il caso di Tommaso Hosni, che ha pugnalato un poliziotto e un militare alla stazione di Milano. È Italiano. Un altro adolescente di Udine, che aveva un canale su Telegram per lo Stato islamico, non ha neppure potuto essere espulso, essendo minorenne.
I casi di questo tipo aumentano, poiché sempre più persone ricevono la nazionalità italiana. Quindi col tempo l’arma dell’espulsione tende a spuntarsi. Non è però qualcosa che agita la classe politica italiana. Finché tutto è tranquillo e non ci sono attacchi, perché dovrebbe preoccuparsi? Da parte mia penso che questa compiacenza sia un errore e che si debba pensare a una vera strategia di deradicalizzazione per il futuro.
Traduzione dal francese di Daniele Mariani
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