«Tu chiamami zio Paolo»
Nel 1985, a 18 anni, Piera Aiello sposa Nicolò Atria. Poco giorni dopo il suocero Vito, boss mafioso di Partanna, in provincia di Trapani, è assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca al marito. Piera decide di testimoniare. Ad ascoltarla c’è Paolo Borsellino. A 25 anni dall’omicidio del magistrato antimafia, le parole della prima testimone di giustizia italiana.
«All’epoca ero una paesanella, non sapevo neppure il significato del termine procuratore della Repubblica», racconta Piera Aiello, ricordando il suo primo incontro con Borsellino. Piera ha 24 anni e una bambina di tre. Alcuni mesi dopo anche Rita Atria, sua cognata, allora 17enne, decide di testimoniare.
Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala. Paolo Borsellino diventa un punto di riferimento per entrambe. Il 19 luglio 1992 il magistrato è ucciso da un’autobomba, insieme alla sua scorta, in via d’Amelio a Palermo. Una settimana dopo Rita Atria, che non riesce a reggere il dolore, si toglie la vita a Roma.
Da allora sono passati 25 anni. Piera Aiello ha una nuova identità, una nuova famiglia, un lavoro. La incontriamo a Berna, alla Casa d’Italia, dov’è venuta a raccontare la sua storia. Nonostante quel che ha vissuto, è una donna affabile, sorridente, solare. Nelle sue parole non c’è rimpianto. Semmai amarezza per uno Stato troppe volte assente, anche nei confronti dei testimoni di giustizia.
tvsvizzera.it: Signora Aiello, nel 1991 lei ha deciso di testimoniare contro gli assassini di suo marito. Cosa l’ha spinta a fare quella scelta? Sapeva a cosa stava per andare incontro?
Piera Aiello: Dopo l’omicidio di mio marito, dopo i vari omicidi successi nel mio paese, a un certo punto ho detto basta. Non era possibile continuare così. C’erano troppi orfani, troppe vedove, troppe donne con il fazzoletto nero in testa. Siccome avevo riconosciuto gli assassini di mio marito e avevo vissuto tanti anni in silenzio, scrivendo molte cose nei miei diari, ho deciso di parlare. All’inizio pensavo addirittura che sarei andata dai carabinieri, avrei fatto la mia denuncia e sarei tornata a casa.
Poi però Francesco Custode, un maresciallo dei carabinieri, mi ha portata a Terrasini, per incontrare Paolo Borsellino. Borsellino mi ha detto: «Voglio che tu sappia quello a cui vai incontro. Denunciando queste persone non potrai più tornare a casa. Però avrai un protezione adeguata. Ti do tre giorni di tempo per pensarci». Ho risposto di non avere bisogno di tre giorni per decidere, ma solo per raccogliere le cose che mi servivano. Avevo già deciso.
Così è iniziata la mia storia di testimone. Ma allora non esisteva ancora la figura di testimone di giustizia, la legge è arrivata solo nel 2001. All’inizio sono stata inserita nel programma dei collaboratori di giustizia.
Per la sua scelta la figura di Paolo Borsellino è stata fondamentale, Qual era il suo rapporto con lui?
Più che un giudice Paolo Borsellino è stato un amico, un fratello maggiore, è stata la spalla su cui abbiamo pianto, gridato, inveito, riso, scherzato.
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Paolo Borsellino si racconta
Il mio primo incontro con lui è stato quasi comico. Io ero una paesanella, per me la massima autorità era il maresciallo del paese. Non conoscevo neppure il significato del termine procuratore della Repubblica. E quando vado a Terrasini e lo vedo seduto alla scrivania con l’eterna sigaretta in bocca, non so cosa dirgli.
Lui vedendomi in imbarazzo, mi dice: «Piacere, Paolo Borsellino». Siccome aveva un accento palermitano molto marcato, io rispondo: «Veramente lei con questo accento mi sembra un mafioso». E lui si mette a ridere.
Capivo che era una persona importante. Siccome nel mio paese tutte le persone importanti si facevano chiamare onorevoli, io faccio: «Senta, scusi onorevole.» Lui si gira: «Alt! Prima mi hai chiamato mafioso, ora onorevole. Con tutto il rispetto per la categoria, mi guardo bene dall’essere un onorevole. Sono un semplice procuratore della Repubblica. Ma tu chiamami zio Paolo.»
Così l’ho sempre chiamato zio Paolo. E lui per me è stato veramente un caro zio, un amico, una persona fondamentale nei momenti di scoramento. I primi tempi sono i più difficili, perché lasci la famiglia, lasci gli affetti, lasci tutto.
Lei ha iniziato a testimoniare nel luglio del 1991. Un anno dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati uccisi. Come ha vissuto quei momenti drammatici?
È stata un’esperienza devastante. Falcone non lo conoscevo, ma sapevo che era molto amico di Borsellino. Dopo la strage di Capaci ho cominciato davvero a preoccuparmi, a pregare giorno e notte, anche perché lui stesso diceva: «Il prossimo sarò io.» Però non ero preparata alla sua morte. Per Rita e per me è stato terribile, lui era una persona a cui potevamo rivolgerci quando c’erano dei problemi e ci dava sempre conforto.
Poi ho visto sorgere tutti questi movimenti di solidarietà, a Palermo e altrove. Era segno che tanta gente gli voleva bene. Però mi sono anche sempre chiesta: tutta questa gente quando Falcone e Borsellino erano vivi e venivano criticati e boicottati? Dov’era?
Sua cognata, Rita Atria, non ha retto alla morte di Borsellino. Lei dove ha trovato la forza di andare avanti?
Fra Rita e me c’era un grande differenza. Rita aveva me, ma non aveva una famiglia che la sosteneva. La mia famiglia invece non mi ha mai abbandonata. In questi casi la famiglia è molto importante. Rita amava suo padre e suo fratello, anche se diceva: «Lo so, mio padre è un mafioso, mio fratello è un delinquente.» La madre l’ha rinnegata. Rita si è trovata sola.
Ricordo una sua frase: «Tutte le persone che io amo alla fine vengono ammazzate, che siano dalla parte giusta o dalla parte sbagliata.» Quando ha iniziato a testimoniare, Rita l’ha fatto per vendetta. Poi quando ha conosciuto Borsellino ha capito che la vendetta non portava a nulla. Da lui ha imparato tantissimo. Si è sentita di nuovo figlia. Quando è morto ha perso il suo punto di riferimento.
“Oggi corro più rischi di vent’anni fa, perché molti di quelli che ho fatto condannare sono fuori dal carcere”.
Com’è la sua vita quotidiana? Ha paura per sé, per la sua famiglia?
Vivo in una località protetta, con videosorveglianza. Vado a lavorare e ho una scorta. Ma cerco comunque di vivere una vita tranquilla, di passare momenti felici con la mia famiglia. Non mi sento sicura al cento per cento, la certezza non te la può dare nessuno. Anzi, poco tempo fa ho chiesto un’analisi di rischio: oggi corro più rischi di vent’anni fa, perché molti di quelli che ho fatto condannare sono fuori dal carcere. Ma ho imparato a convivere con questa situazione. Ho timori, ma non per la mia vita, piuttosto per la mia famiglia.
Da 26 anni lei vive una vita sotto protezione, ha fatto parte del programma per i testimoni di giustizia, ne è uscita, oggi ha nuove generalità. Qual è stata la sua esperienza a fianco delle istituzioni in questi anni?
Chi ci doveva aiutare, chi ci doveva proteggere, molte volte è stato assente, indifferente. Il fatto di essere testimone non dovrebbe voler dire che regali completamente la tua vita allo Stato. Hai bisogno e diritto di ricostruirti una vita.
“La verità è che spesso siamo stati trattati come arance: quando le hai spremute, poi le butti via”.
Io sono una delle poche testimoni che è riuscita a ricostruirsi una vita, perché ho ripreso tutto nelle mie mani, a muso duro. Ho deciso che non potevo avere un altro padre, un padre ce l’ho già. Lo Stato non mi può fare da padre, mi può solo accompagnare a una nuova vita. Molti di noi hanno lasciato attività commerciali, case, hanno lasciato tutto. Il minimo che lo Stato ci possa dare è la dignità lavorativa.
Abbiamo combattuto per vent’anni per avere un posto di lavoro, per ottenere una legge regionale siciliana e anche una legge nazionale. Ora la legge regionale siciliana ha già collocato una quarantina di testimoni nelle sedi regionali ed extra regionali, ma la legge nazionale ancora non è stata applicata e sa perché? Perché non ci sono i soldi!
Chi è stato al governo magari per due anni quando esce riceve un vitalizio. E chi invece dà la vita per lo Stato, non merita neanche un posto di lavoro, una sicurezza economica? Noi non abbiamo chiesto vitalizi, abbiamo solo chiesto di tornare a lavorare.
La verità è che spesso siamo stati trattati come arance: quando le hai spremute, poi le butti via. Così si è comportato lo Stato con i testimoni. Con tutto ciò però, continuo a ribadire che ognuno di noi deve avere una coscienza. Se tornassi indietro, testimonierei di nuovo, ma andrei dove voglio io, non mi affiderei allo Stato.
Testimoni di giustizia
Il testimone di giustizia è una figura prevista dall’ordinamento giuridico italiano. Si tratta di una persona che non ha commesso alcun reato – e anzi spesso ne è vittima – e ha deciso di collaborare con la magistratura fornendo informazioni utili alle indagini, mettendo a rischio la vita propria e quella dei propri famigliari in misura tale da rendere insufficienti le normali misure di pubblica sicurezza.
La figura di testimone di giustizia, anche se esisteva già in precedenza, è stata riconosciuta sul piano legislativo solo nel 2001. In precedenza i testimoni di giustizia erano assimilati ai collaboratori di giustizia (i cosiddetti «pentiti»). I testimoni di giustizia hanno diritto a misure di protezione e di sostegno economico.
Una legge del 2013 prevede la possibilità per i testimoni di giustizia di essere assunti dalla pubblica amministrazione. Nel marzo 2017 la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge che offre loro, tra l’altro, maggiore autonomia economica. Le legge deve ancora essere dibattuta in Senato.
I testimoni di giustizia in Italia sono un’ottantina, a fianco di circa 1300 collaboratori di giustizia. Compresi i familiari, lo Stato italiano protegge oltre 6500 persone su tutto il territorio nazionale.
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