Ettore Castiglioni, un alpinista in cerca di libertà
Il 12 marzo 1944 l’alpinista italiano Ettore Castiglioni morì sul passo del Forno, al confine tra l’Italia e la Svizzera. Mesi prima era stato alla testa di un gruppo di alpinisti che aveva aiutato decine di profughi a riparare in Svizzera. Tra di loro anche il futuro presidente italiano Luigi Einaudi. La sua storia è raccontata in un libro e in un film usciti di recente.
È il 12 marzo 1944, verso le quattro e mezza di mattina. Da una finestra del secondo piano dell’albergo Longhin a Maloja, un villaggio tra l’Alta Engadina e la Val Bregaglia, nel canton Grigioni, un uomo scivola lentamente a terra lungo alcune lenzuola annodate. Indossa pochi abiti. Una coperta di lana lo protegge a malapena dal freddo. Ai piedi ha delle pantofole di feltro. Si guarda intorno furtivo, cerca qualcosa. Nel villaggio trova un paio di sci e dei bastoni. Li prende e sia avvia a passo spedito verso le montagne, nella neve.
Due libri e un film
Già nel 1993 il giornalista Marco Albino Ferrari aveva curato una prima edizione dei diari di Ettore Castiglioni, con il titolo di “Il giorno delle Mésules. Diario di un alpinista antifascista”. Alcuni anni dopo lo stesso Ferrari ha ricostruito gli ultimi mesi di vita di Castiglioni in una biografia romanzata dal titolo Il vuoto alle spalle. Storia di Ettore Castiglioni.
Nel 2017 i registi Andrea Azzetti e Federico Massa hanno realizzato un documentario sulla vita del grande alpinista, “Oltre il confine, la storia di Ettore Castiglioni”, coprodotto dalla Radiotelevisione della Svizzera Italiana (RSI) e dalla Imago Film di Lugano.
Il film sarà trasmesso mercoledì 13 dicembre alle 22.50 dal secondo canale della RSI, La 2. In occasione dell’uscita del film, l’editore Hoepli di Milano ha pubblicato una nuova edizione de “Il giorno delle Mésules”, con prefazione di Paolo Cognetti, scrittore di montagna e vincitore del premio Strega.
Qualche tempo dopo un soldato bussa alla porta della camera del Longhin. Entra. Il letto è vuoto, la finestra aperta. Risuonano grida d’allarme. I soldati escono sulla strada, cercano tracce nella neve, perlustrano i dintorni, invano. Poi una pattuglia di guardie di frontiera si avvia verso la mulattiera che conduce al passo del Muretto e al ghiacciaio del Forno. Oltre il crinale c’è l’Italia.
Trovano delle tracce, le seguono. Alle 10.45 sono ai piedi del ghiacciaio del Forno. «Poiché il fuggitivo non si vedeva da nessuna parte e il ghiaccio compatto gli aveva reso più facile la fuga, un ulteriore inseguimento non avrebbe avuto alcun senso, tanto più che si tratta di un alpinista altamente qualificato», scriverà due giorni dopo il capoposto delle guardie di frontiera caporale Toscano in un rapporto.
Ma chi è il fuggitivo? E cosa ci faceva a Maloja?
«Un alpinista eccellente »
Il suo nome è Ettore Castiglioni, nato nel 1908 da una ricca famiglia milanese, laureato in giurisprudenza, amante della musica, dell’arte e, soprattutto, della montagna. L’hanno capito subito anche le guardie di frontiera svizzere: «È un alpinista eccellente. Da quanto ha raccontato, si capisce che conosce molto bene l’area di frontiera della Bregaglia e di Maloja e che ne ha scalato quasi tutte le montagne, che ha citato per nome», si legge in un altro rapporto del marzo 1944.
Castiglioni comincia ad arrampicare nelle Dolomiti fin dall’adolescenza. Da allora la passione per la montagna non lo abbandonerà più. «A Milano mi sento sempre di passaggio, anche quando vi resto per parecchi mesi. Fra le mie crode mi sento a casa mia», scriverà anni dopo nel suo diario.
Negli anni Trenta è ormai fra i più forti alpinisti italiani. Apre numerose nuove vie nelle Dolomiti e altrove – circa 200 in tutto l’arco alpino – assieme a scalatori come Celso Gilberti, Bruno Detassis, Battista Vinatzer, Vitale Bramani (l’inventore delle suole Vibram). Nel 1937 partecipa a una spedizione alpinistica italiana in Argentina, che tenta invano di scalare il Cerro Fitz Roy, la montagna più alta della Patagonia.
Castiglioni è noto anche come autore di importanti guide di arrampicata edite dal Club alpino italiano (CAI) e dal Touring club, in uso ancora nel dopoguerra e fonte di ispirazione per intere generazioni di alpinisti. «Castiglioni non solo apre e descrive vie classiche come la parete sud della Marmolada o la parete nordovest del Pizzo Badile, che scala nel 1937 insieme a Vitale Bramani, ma perlustra anche molte vie meno conosciute», osserva lo scrittore e giornalista Marco Albino Ferrari, direttore di Meridiani Montagne e curatore dell’edizione dei diari di Castiglioni.
«Le ascensioni le ho fatte per me»
Il suo ideale di alpinismo non sta tanto nella ricerca della difficoltà pura, quanto nella volontà di esplorare con meticolosità interi gruppi montuosi. Un approccio alla montagna, il suo, che lo tiene lontano dalla retorica della conquista di stampo fascista e nazionalista.
Le sue imprese gli valgono nel 1934 una medaglia d’oro al valore alpinistico, ma Castiglioni accoglie il riconoscimento con fastidio. «Ora ho anche la seccatura della medaglia che mi tocca accettare per non offendere chi me l’ha assegnata, credendo di farmi piacere e mi toccherà andare alla cerimonia […] Cosa c’entrano tutti loro? Le mie ascensioni le ho fatte per me, e per me solo, e sono e resteranno soltanto mie», scrive nel suo diario.
«Castiglioni era un solitario, in qualche modo un misantropo, certamente un anticonformista. Teneva le distanze dalla società e aveva un forte spirito critico», osserva Marco Albino Ferrari. «Guardava al fascismo come a una grande mascherata».
L’entrata in guerra dell’Italia trova tuttavia Castiglioni su posizioni ormai risolutamente antifasciste. «Entriamo anche noi nel novero dei briganti affamati di preda, che ci gettiamo con selvaggia vigliaccheria su una nazione già vacillante per strapparle la nostra parte di bottino», scrive nel suo diario. «Ma dopotutto questo era il logico sbocco a cui la dittatura doveva condurci; e il popolo italiano che per 18 anni ha subito la schiavitù senza sapersi ribellare, non si meritava altra sorte che di vivere fino in fondo la sua tragedia di ignominia».
La chiamata di chi fugge
Nel maggio del 1943 Castiglioni è richiamato alle armi ed è assegnato alla scuola di alpinismo militare di Aosta, con il ruolo di istruttore. Dopo l’8 settembre, quando ormai l’esercito è allo sbando, con alcuni commilitoni raggiunge l’Alpe Berio, in Valpelline, in una posizione strategica a ridosso del confine italo-svizzero. Qui nasce una piccola comunità di alpinisti antifascisti, basata su principi di uguaglianza tra soldati e ufficiali. «Massima solidarietà; nessuno deve pensare per sé, ma solo per la comunità; tutti i beni, tutti i profitti (in denaro o in generi), tutti i lavori saranno in comune», annota Castiglioni nel suo diario.
Il gruppo si impegna ad aiutare esuli ebrei e antifascisti in fuga a raggiungere il confine svizzero, attraverso la Fenêtre du Durand, un valico tra Val D’Aosta e canton Vallese a quasi 2800 metri di altitudine. Tra le persone accompagnate in Svizzera dalla comunità del Berio c’è anche Luigi Einaudi, il futuro presidente della Repubblica italiana.
Sono settimane di febbrile attività, cruciali per l’esistenza di Castiglioni. La ribellione istintiva ma essenzialmente passiva dell’alpinista nei confronti del regime fascista si trasforma in azione. «Dopo l’8 settembre è come se Castiglioni rispondesse a una chiamata. Potrebbe scappare, come ha sempre fatto, e invece decide di andare verso le persone. Capisce che è arrivato il momento di scegliere», afferma Marco Albino Ferrari.
L’8 ottobre però Castiglioni è attirato oltre il confine e arrestato dai soldati svizzeri. La vicenda è poco chiara, finora non sono emersi documenti di parte elvetica che permettano di fare maggiore luce sull’episodio. In ogni caso Castiglioni trascorre un mese in Svizzera, prima nel carcere di Martigny, poi a Sion, infine è espulso verso l’Italia.
L’ultima missione
Al suo rientro. Castiglioni trova la cascina del Berio abbandonata. In dicembre torna a Milano. La città è devastata dai bombardamenti. Forse in quel periodo stringe contatti con ambienti della Resistenza. L’ultima annotazione nel suo diario è del 10 gennaio 1944: «Vorrei tanto poter ritornare tra i monti, per ritrovarmi, per ritrovare tutta la mia energia, il mio spirito d’iniziativa, la mia volontà d’azione, il più vero me stesso.»
L’11 marzo, insieme a una comitiva guidata da Vitale Bramani, Castiglioni sale dalla Val Malenco al Passo del Forno. Qui lascia il gruppo e varca il confine, scendendo con gli sci verso Maloja. In tasca ha un passaporto svizzero, prestatogli da un conoscente, Oskar Brändli, e un elenco di nomi di persone residenti in Svizzera. Nello zaino ha i diari del nipote Saverio Tutino, internato in Svizzera.
Alle 15.30 il telefono del posto delle guardie di frontiera di Maloja squilla, all’altro capo c’è il gerente del ristorante Alpina. Informa il caporale Thöny della presenza nel suo locale di una persona sospetta. Poco dopo Castiglioni è fermato e condotto nel locale delle guardie. La sua vera identità è presto svelata. Castiglioni afferma di essere entrato in Svizzera per consegnare degli effetti personali a suo nipote e portare dei saluti ad alcuni internati italiani. Le guardie di frontiera decidono di consegnarlo alla polizia a St. Moritz, ma l’ultima corriera per la località engadinese è partita. Lo conducono quindi all’albergo Longhin, gli tolgono scarpe, pantaloni e giacca per evitare che fugga, lo chiudono in una stanza del secondo piano.
Il corpo assiderato di Ettore Castiglioni sarà ritrovato tre mesi dopo, sul versante italiano del passo del Forno. I motivi del suo viaggio in Svizzera, della fuga disperata, le cui conseguenze dovevano essere ben chiare a un esperto alpinista come lui, rimangono avvolti in un fitto mistero. Castiglioni era in missione per conto della Resistenza? Stava cercando di ritrovare un ruolo nella lotta contro il nazifascismo? Era spinto solo dal suo anelito di libertà, dal desiderio di avventura, dalla ricerca di una morte in montagna?
Anni prima, parlando di un incidente in montagna che lo aveva costretto a rimanere fermo per ore nella neve, scrisse: «Non essere più nulla di quello che si è stati: gettarsi a terra soli, supini, impotenti. Allora ci si accorge che tutto quel dominio non era che un’illusione […], che la natura che abbiam creduto di poter assoggettare, ci sommerge indifferente, come una pagliuzza sull’onda dell’oceano.»
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