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Fabrizio De André: poesia, anarchia, la terza via

Fabrizio de André
"E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita." - Il suonatore Jones, 1971 Keystone

A vent'anni dalla morte, l'11 gennaio del 1999, un ricordo dell'itinerario (ostinato e contrario) del cantautore genovese.

Anni Settanta: gli anni del bivio. Da un lato il perbenismo, i valori costituiti, dall’altro la ribellione, la militanza politica. De André entra in questa realtà sociale, spalancando le porte ad una terza via: la diserzione.

All’inizio c’è un po’ di confusione. Si confonde l’invito alla diserzione con il mito della militanza. In molte comunità antagonistiche De André funge da colonna sonora per sogni e battaglie. Ascoltando e riascoltando il suo disco più impegnato, Storia di un impiegato, si favoleggia sulla necessità di un’azione civile, di un ingaggio sociale che possa cambiare il mondo. Sono gli anni in cui si pensa che la salvezza nasca dalla vita comune, dalla storia, dall’esempio di eroi rivoluzionari.

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Poi il sogno si stempera. E la colpa non sta solo da una parte. Si assiste a pagliacci scimmiottare le canzoni di Faber, usarle a proprio vantaggio, trasformale in inni politici, farne i vessilli smunti di un riformismo pseudomessianico. 

Allora, in solitudine, si torna ad ascoltare De André e si capisce dove si è sbagliato, la confusione che è stata fatta fra militanza e diserzione. I suoi testi, la sua pietà non solo verso i derelitti ma anche verso gli aguzzini, la sua retraite in Sardegna (dopo che la Sardegna era stata il luogo del sequestro), si palesano per quello che sono e indicano una strada nuova: non c’è nessuna linea da superare per salvarsi, non è necessario opporre alla forza omologante e distruttrice una forza opposta e ugualmente conflittuale. Basta scartare di lato. Questo scarto si chiama diserzione o anarchia.

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Anarchicamente De André detesta il potere, le maggioranze, la loro capacità di fagocitare, anestetizzare ed omologare le persone. Ha in odio le categorie, le corporazioni e forsanche le comunità; sa che quando l’uno diventa due, diventa una lobby che difende solo i propri interessi e non quelli della fratellanza. 

Nulla fa inorridire di più De André della felicità e del benessere, quando a pagarne il prezzo è qualcun altro. Per questo, nei suoi testi, De André canta sempre le persone sole e reiette: le puttane, i carcerati, gli emarginati (nelle prime ballate), gli indiani d’America, i morti di provincia (ne L’indiano e nella sua Spoon river), i poveri cristi dei Vangeli apocrifi (ne La buona novella), i barboni, i transessuali, i lavavetri (negli ultimi dischi). Non difende mai una parte in opposizione ad un’altra, ma sempre l’emarginato al cospetto del gruppo. 

Memorabile è la sua invocazione al Signore, in difesa degli ultimi: Ricorda, Signore, questi servi disobbedienti alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che, dopo tanto sbandare, / è appena giusto che fortuna li aiuti.

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La sua simpatia per gli emarginati e per i disertori nasce da due sentimenti profondamente religiosi: la pietà e il misticismo. La pietà di De André è frutto di un profondo sentimento di fratellanza (che nasce dalla consapevolezza di condividere una condizione senza sbocchi). 

Esempio di questa pietà universale si ha all’indomani della sua liberazione. Dopo essere stato rapito insieme a Dori Ghezzi e sequestrato per 100 giorni nell’Hotel Sopramonte in Sardegna, dice: i veri sequestrati sono i nostri carcerieri, perché membri di una comunità perdente e dal destino segnato. Allo stesso modo della sua vita, anche i testi sono colmi di pietas. L’esempio supremo (al di là dei numerosi derelitti –splendenti di dignità­– che costellano le sue canzoni) si ha nella Guerra di Piero, allorché fa dire al soldato di preferire la morte piuttosto che uccidere: E se gli sparo in fronte o nel cuore / soltanto il tempo avrà per morire / ma il tempo a me resterà per vedere / vedere gli occhi di un uomo che muore.

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Il misticismo, invece, risiede nella scelta di De André di starsene ai margini, in solitudine (nella sua Sardegna o al quinto piano di un palazzo milanese, discosto dal traffico e dal rumore), celebrando ad ogni piè sospinto la condizione dell’uomo solo, del disertore, di colui che fugge ogni regola prestabilita, affermando come i folli e i mistici siano le sole persone davvero libere di questa terra. E l’anarchico De André, lo sappiamo, ha un debole per la libertà: noi siamo qui per diventare liberi

Con tutto questo non vogliamo dire che le canzoni di De André non abbiano una forte connotazione politica (o, meglio, a-politica, se si pensa ai versi: certo bisogna farne d strada (…) per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni). Esse prendono di mira, con grande ironia, tutte le istituzioni della polis, dalla Chiesa alla classe dirigente. Le sue invettive più caustiche ed esilaranti sono rivolte ai luridi re, ai pingui borghesucci, ai giudici feroci. Emblematici sono i versi: banchieri pizzicagnoli notai / con ventri obesi / e i cuori a forma di salvadanai. Il bersaglio privilegiato è, di fatto, la sua classe di appartenenza: la borghesia. 

Figlio di una ricca famiglia genovese, De André sembra portare in sé questa discendenza come una stimmate. Sa che non può liberarsene e proprio per questo fa di tutto per allontanarla, evidenziandone i mali: Io sono un borghese –diceva di se stesso– sono nato in un ambiente borghese, ho vissuto a contatto con una società borghese, ho avuto amici borghesi. Canto quindi davvero le malattie della borghesia, anzi, la mia malattia di borghese.

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L’invettiva di De André, come quella dei suoi maestri (Brel, Bressens e Vian), non è però rabbiosa, bensì ironica e parodica. Anche nelle sue canzoni più antagonistiche, Faber canta con grande civiltà il suo spregio nei confronti dell’inciviltà del potere e delle leggi del branco. Al contrario di quasi tutti i suoi colleghi cantautori, De André non usa quasi mai le canzoni per trasmettere un messaggio politico. Per questo la sua opera si tiene lontano dalla trivialità della retorica e della rabbia sociale.

Proprio per questo le canzoni di De André sono canzoni senza tempo, che parlano della vita, della morte, della guerra e degli amori. Sono poesie che oltrepassano la contingenza e assumono una dimensione d’eternità, lontana dalla frenesia e dalla corruzione del momento.  La diatriba che appassiona i critici letterari e i poeti se i testi di De André (o di Dylan, di Cohen,…) possano essere definiti poesie, al di qua e al di fuori della musica, ci pare questione stucchevole.  

Cos’è poesia se non una rivelazione, uno stato di grazia, un luogo in cui l’istante si congiunge con l’eternità. Poesia è qualcosa che accade al di sopra delle parole / celebrative del nulla. Ci sono testi poetici che sono privi di poesia, mentre ci sono SMS, twitter, testi narrativi e canzoni che trasudano di poesia. Poesia è uno stato di attesa aurorale dentro cui cade una goccia di splendore. E le canzoni di De André sono uno stillicidio di poesia.

Link: l’articolo originale su rsi.chCollegamento esterno

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