Cosche calabresi in Svizzera per sottrarsi al 416 bis
La vasta operazione di polizia effettuata martedì contro presunti appartenenti della cosca calabrese dei Molè ha messo in risalto le ramificazioni della 'ndrangheta sul territorio elvetico, dove sono stati fermati sei degli oltre cento indagati finiti in manette nel corso della notte.
In particolare sulla Svizzera italiana si sono concentrate le attenzioni degli inquirenti, che hanno proceduto a due arresti e ad alcune perquisizioni domiciliari, per i quali la zona a ridosso del confine serviva a presidiare il Comasco dove il clan originario della piana di Gioia Tauro riciclava in diverse attività legali – nel settore della ristorazione, delle pulizie e dei trasporti – i proventi del commercio di stupefacenti. Mentre nel Canton San Gallo c’era la base logistica dei loro traffici internazionali.
La Svizzera e in particolare il Cantone San Gallo, ha spiegato Samuel Bolis, comandante del nucleo di polizia economico-finanziaria di Como, ai microfoni della Radiotelevisione svizzera RSI, venivano usati come “retroterra logistico per detenere droga proveniente dall’Italia per il mercato svizzero, e armi provenienti dall’estero e dirette verso l’Italia”.
Il Ticino in particolare era usato dal clan Molè come presidio del territorio comasco, dove l’organizzazione aveva diverse attività economiche che servivano al riciclaggio di denaro. Dalle indiscrezioni della stampa locale i fermati nel cantone italofono sarebbero un 59enne della provincia di Milano con un permesso di dimora (B) e un 40enne frontaliere di Catanzaro.
Nella Confederazione, ha precisato Samuel Bolis, le organizzazioni mafiose riescono ostacolare le indagini italiane grazie al fatto che la legislazione svizzera in materia non presenta norme penali di repressione e prevenzione analoghe a quelle del Belpaese.
In Svizzera per sfuggire al 416 bis
“Di questo abbiamo avuto contezza proprio in questa indagine: gli arrestati nel loro incontro hanno espressamente detto di aver scelto la Svizzera perché non esiste un reato paragonabile al 416bis italiano”, ovvero l’articolo del Codice penale italiano che punisce chiunque fa parte di un’associazione mafiosa.
Di fatto, il Codice penale svizzero contempla un articolo (il 260ter 1) che punisce con una pena detentiva fino a cinque anni “chiunque partecipa a un’organizzazione che tiene segreti la struttura e i suoi componenti e che ha lo scopo di commettere atti di violenza criminali o di arricchirsi con mezzi criminali”. Tuttavia questo articolo è di difficile applicazione ed è molto raramente utilizzato.
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Un consulente finanziario con precedenti
Dall’inchiesta che ha coinvolto Calabria, Lombardia, Toscana e Confederazione elvetica è emerso anche il nome di Giuseppe Larosa, meglio conosciuto negli ambienti malavitosi come “Peppe La mucca”, il presunto boss ritenuto dagli inquirenti italiani “il capo dell’articolazione svizzera” dell’organizzazione.
Il Larosa, titolare di diverse attività, si muoveva ai due disinvoltamente tra i due lati del confine, mantenendo i rapporti con gli affiliati lombardi e assicurando un commercio transfrontaliero di droga e armi. In precedenza però il Ministero pubblico della Confederazione aveva decretato il non luogo a procedere nei suoi confronti, dopo l’arresto avvenuto nel 2014 e un anno e mezzo di indagini.
Uno scenario comunque non del tutto inedito per gli osservatori del fenomeno: proprio un paio di mesi fa il noto procuratore di Catanzaro Nicola GratteriCollegamento esterno, intervenuto a un convegno a Lugano, aveva parlato di una ventina di cellule ‘ndranghetiste attive in Svizzera.
Del resto proprio in Ticino svolgeva indisturbato – con regolare permesso di soggiorno – l’attività di consulente finanziario, per conto delle cosche calabresi, il noto killer Gennaro Pulice. Nel servizio di Falò del 2017 i dettagli della vicenda.
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