Le mafie in Svizzera, un problema anche sociale e legislativo
Ormai da tempo le organizzazioni criminali italiane, in particolare la 'ndrangheta, hanno messo radici anche in Svizzera, come dimostrato da una recente operazione di polizia. Nell'opinione pubblica, però, vi è scarsa consapevolezza di questo fenomeno e le pene blande in cui incorrono questi criminali non costituiscono certo un deterrente.
L’operazione antimafia “Imponimento”, condotta la settimana scorsa dalle autorità svizzere e italiane, ha riportato sotto la luce dei riflettori le mafie italiane e la loro presenza nella Confederazione. Nel 2016, dopo lo smantellamento di una cellula della ‘ndrangheta nel canton Turgovia – la società di Frauenfeld – tre uomini ricercati dalle autorità italiane sono stati arrestati in Vallese. Più recentemente, la polizia svizzera ha messo le mani su altri due membri della mafia in esilio, il primo nel settembre 2019 nei pressi di Lugano e il secondo il 27 giugno scorso nel canton Berna. L’ultimo affiliato della ‘ndrangheta, coinvolto tra l’altro nel traffico di armi e droga per conto del boss Rocco Anello, è stato arrestato la notte del 21 luglio nella sua casa in Ticino.
Queste successive rivelazioni sulla presenza di gruppi mafiosi in Svizzera sono un buon indicatore dell’azione della Confederazione, sempre meno timida di fronte alla criminalità organizzata, e riflettono anche l’importanza degli scambi italo-svizzeri.
Le conoscenze delle autorità italiane ci permettono di cogliere meglio il significato “penale” di certi comportamenti e di rilevare i segnali di allarme. Al contrario, tutto ciò che accade in Svizzera – o all’estero in generale – si ripercuote sulle relazioni tra le persone nel loro Paese d’origine, anche in termini di violenza, intimidazione e mezzi economici. Da qui l’importanza di sapere esattamente di cosa si parla, a rischio di creare confusione. In Svizzera non si può parlare di “clan” o “locali” (le strutture di base della ‘ndrangheta), ma di “cellule”, termine che Fedpol (la polizia federale) e magistrati italiani come Nicola Gratteri, il procuratore di Catanzaro, non usano a caso. Allo stesso modo, il fatto di voler tradurre la presenza della mafia in cifre non può che portare a una guerra dei numeri, con stime che vanno dal semplice al doppio secondo i media.
Risorse troppo esigue
Oggi la Svizzera può contare su investigatori e analisti competenti, ma sono troppo pochi e le risorse mancano. Questa debolezza è stata evidenziata dall’ex poliziotto – 40 anni di lavoro alle spalle – e deputato ticinese liberale radicale Giorgio Galusero, in una lunga intervista pubblicata questa settimana dal quotidiano La Regione. Galusero sottolinea che la lotta alla mafia passa soprattutto attraverso la prevenzione, la sorveglianza e la raccolta di informazioni.
Tuttavia, il Nucleo compiti speciali, l’unità della polizia cantonale ticinese incaricata, tra le altre missioni complesse, della lotta alla criminalità organizzata, dispone solo di due investigatori. Come possono questi due uomini gestire da soli e simultaneamente il controllo del territorio, le attività di intelligence e il lavoro investigativo, soprattutto in un Cantone in cui la densità di gruppi mafiosi è elevata? Anche considerando gli altri cantoni, indipendentemente dal livello di infiltrazioni mafiose, il problema fa riflettere.
PLACEHOLDERLo stesso vale per i meccanismi alla base della presenza delle mafie italiane sul nostro territorio, in primo luogo la ‘ndrangheta, da tempo radicata in molti settori legali dell’economia svizzera e che ha attecchito in tutte le regioni linguistiche: ristoranti, alberghi, cantieri stradali e ferroviari, edilizia, oltre alle società di consulenza finanziaria e alle società “bucalettere” (società ombra, che hanno solo un indirizzo postale) che proliferano nel cantone dei Grigioni. Le altre mafie italiane, la Camorra, la Sacra corona unita e Cosa Nostra, sono pure presenti in Svizzera, ma in misura molto minore rispetto alla potente organizzazione calabrese.
Più che il numero di mafiosi presenti sul territorio elvetico (inevitabilmente solo frutto di ipotesi), la questione di fondo è di natura sociale e legislativa. Sociale, perché è facile insediarsi con discrezione in luoghi dove non c’è consapevolezza del fenomeno. Di fatto, la popolazione svizzera è generalmente poco o male informata sull’argomento, a parte quando avviene un’operazione antimafia su vasta scala. Legislativa, in quanto l’articolo 260ter del Codice penale parla solo di organizzazione criminale, senza fare nessuna distinzione con il gruppo o la banda criminale. Il principale punto debole di questa disposizione è la pena prevista: un massimo di cinque anni di prigione per un reato di mafia. In altre parole, una condanna ridicola se paragonata ad esempio all’ergastolo che si rischia in Italia, dove le sentenze sono bollate con la dicitura: “Fine pena: mai”.
Già nel gennaio 2014, la Commissione della gestione del Consiglio degli Stati aveva presentato un’iniziativa parlamentareCollegamento esterno che chiedeva la revisione di questo articolo, ritenendo che “contrariamente agli intenti originari, nel suo tenore attuale l’articolo 260ter CP non sia sufficiente per perseguire con successo le organizzazioni mafiose veramente pericolose e in particolare chi ne regge le fila”.
La giurisprudenza però evolve
Ad oggi, la legge non è ancora stata modificata, malgrado gli appelli di molti specialisti svizzeri e italiani. Questi ultimi rimproverano altri paesi europei di dar prova di un certo lassismo giudiziario in materia. Nella pratica, però, la situazione in Svizzera è evoluta dopo una sentenza pronunciata dal Tribunale penale federale (Tpf) nel 2017, nella quale i giudici hanno riconosciuto lo status di organizzazione criminale della ‘ndrangheta. Il Tpf ha inoltre confermato due volte che determinati comportamenti – come il fatto di occupare una posizione gerarchica nell’organizzazione, stabilire contatti e promuovere incontri tra i membri, partecipare ad atti criminali che contribuiscono agli interessi e agli obiettivi della società madre – rientrano nell’ambito di una chiara partecipazione a un’organizzazione criminale.
Sulla base di questa giurisprudenza, l’esistenza di un reato concreto non dovrebbe più, essere come è stato finora una conditio sine qua non per una condanna. Da qui a che la Svizzera non sia più percepita dalla mafia come un’oasi di (relativa) tranquillità vi è però ancora un certo margine.
Per pura coincidenza, il Ministero pubblico della Confederazione ha perso il suo capo pochi giorni dopo l’operazione “Imponimento”. Le dimissioni di Michael Lauber, che avrebbe dovuto cercare di convincere il Parlamento a rafforzare il sistema giudiziario, fanno seguito a dei procedimenti disciplinari e a sospetti di collusione con alti funzionari della Fifa. Una situazione, questa, che di certo non aiuta il Ministero pubblico e i procuratori impegnati nella lotta alla mafia, che dovranno ora cercare un’altra via per dar visibilità al loro lavoro e rassicurare sulla loro credibilità.
Cosa dice il Codice penale
Art. 260ter 1 – Organizzazione criminale
1. Chiunque partecipa a un’organizzazione che tiene segreti la struttura e i suoi componenti e che ha lo scopo di commettere atti di violenza criminali o di arricchirsi con mezzi criminali,
chiunque sostiene una tale organizzazione nella sua attività criminale,
è punito una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.
2. Il giudice può attenuare la pena (art. 48a)2 se l’agente si sforza d’impedire la prosecuzione dell’attività criminale dell’organizzazione.
3. È punibile anche chi commette il reato all’estero, se l’organizzazione esercita o intende esercitare l’attività criminale in tutto o in parte in Svizzera. L’articolo 3 capoverso 2 è applicabile.
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