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Esportazione d’armi, il popolo avrà l’ultima parola

donna con mitra
Per il momento non cambia nulla per l'export di materiale bellico. Piyal Adhikary/EPA/Keystone

I 'senatori' rifiutano di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi. Hanno deciso di lasciare la decisione di questo acceso dibattito al popolo. I sostenitori di un giro di vite sono infatti pronti a presentare la loro iniziativa popolare.

Il Consiglio degli Stati non vuole introdurre ostacoli supplementari all’industria degli armamenti. La Camera dei cantoni ha infatti respinto lunedì due mozioni su un tema che da mesi riscalda gli animi a Palazzo federale.

Il primo testoCollegamento esterno presentato dal presidente del Partito borghese democratico (PBD/centro) Martin Landolt proponeva che gli orientamenti sulle esportazioni di armi fossero decisi dal Parlamento e non più dal Governo, e quindi soggetti a referendum facoltativo. Tuttavia, la mozione, accettata dal Consiglio nazionale (camera bassa) lo scorso settembre, è stata respinta dal Consiglio degli Stati. 

I ‘senatori’ hanno anche affossato una mozioneCollegamento esterno del senatore Raphaël Comte del Partito liberale-radicale (PLR/destra) che chiedeva di rafforzare i controlli sulle esportazioni di materiale bellico.

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La maggioranza dei consiglieri di Stato ha preferito non legiferare e lasciare il popolo pronunciarsi il sulla cosiddetta iniziativa “di rettificaCollegamento esterno“. In effetti, le 100’000 firme necessarie per sottoporre a votazione popolare il testo intitolato “Contro l’esportazione di armi verso paesi in guerra civile” sono già state raccolte. Il Consiglio degli Stati ha seguito l’opinione della sua commissione di politica di sicurezza, che non voleva anticipare il dibattito che avrà luogo nell’ambito della votazione sull’iniziativa popolare. La mozione non è quindi più necessaria, ha rilevato l’esponente del Partito popolare democratico (PPD/centro) Isidor Baumann.

“È inopportuno trattare parallelamente due strumenti che hanno lo stesso obiettivo”, ha dal canto suo argomentato il ministro dell’economia Guy Parmelin. Il consigliere federale ha ricordato che la Svizzera effettua delle ispezioni sul posto (in gergo delle “post-shipment verifications”) per assicurarsi che il paese destinatario rispetti la dichiarazione di non riesportazione. “Per noi il sistema attuale funziona”, ha sottolineato.

La sinistra ha chiesto invano che il Parlamento si “assuma le sue responsabilità”. “La vendita di materiale bellico è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai funzionari”, ha dichiarato la socialista Géraldine Savary. Il suo collega di partito Claude Hêche ha incitato il Parlamento ad accettare i due testi, sottolineando che “i pezzi di ricambio di un’arma sono potenzialmente armi. Il nostro paese non deve solo agire con moderazione, bensì essere pronta a tirare il freno a mano”.

Una spina nei piedi della Confederazione

La politica svizzera in materia di esportazione di armi è controversa da tempo. Il dibattito si è acceso il 15 giugno 2018, quando il Governo ha annunciato che di volere autorizzare la vendita di armiCollegamento esterno ai paesi in preda a un conflitto interno, a condizione che non vi fosse motivo di credere che le armi sarebbero state utilizzate in tale conflitto. Il Consiglio federale ha così accettato una richiesta dell’industria degli armamenti, che deplorava un drastico calo delle esportazioni e voleva ottenere condizioni simili a quelle della concorrenza europea. La decisione del Consiglio federale ha suscitato una pioggia di critiche da parte degli ambienti di sinistra, della società civile e anche di diversi partiti di destra.


La credibilità della Svizzera per quanto concerne la vendita di materiale bellico all’estero ha subito un duro colpo anche lo scorso settembre, in seguito alla pubblicazione di un rapporto del Controllo federale delle finanze. In questo documento veniva evidenziata la scarsa efficacia dei controlli effettuati all’estero.

L’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato del suo paese a Istanbul, nell’ottobre 2018, ha pure sollevato la questione delle esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita. Da più parti è stato chiesto un embargo sulla vendita d’armi destinate a Riad. 

Infine, la scoperta di granate svizzere in Siria e la pubblicazione sul domenicale SonntagsBlick di fucili svizzeri nelle mani di soldati sauditi dispiegati nello Yemen hanno inferto un altro colpo agli esportatori d’armi. È in questo contesto che alla fine di ottobre il Governo elvetico ha deciso di fare dietrofront. La prassi attuale di vietare le esportazioni verso i paesi teatro di una guerra civile o di un conflitto internazionale rimane invariata.

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Le esportazioni d’armi non se la passano male

Nel 2018 dalla Svizzera è stato esportato materiale bellico per un valore di 509 milioni di franchi, stando alle statistiche della Segreteria di Stato dell’economiaCollegamento esterno (Seco).

Secondo la Seco, non è però possibile paragonare i risultati del 2018 con quelli degli anni precedenti, poiché le statistiche sono elaborate in base a una nuova banca dati.

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I principali paesi destinatari sono stati la Germania (118 milioni), seguita da Danimarca (73,5), Stati Uniti (51,9), Romania (22,5) e Italia (19,6). La Svizzera ha pure venduto materiale bellico a Pakistan (10,9 milioni), Emirati Arabi Uniti (9,8), Oman (6,3) e Bahrein (3).

Nel 2018, la Seco ha respinto 15 domande di esportazione su 39 (48 su 65 nel 2017).



traduzione di Daniele Mariani

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