Troppi direttori d’orchestra stonano nella gestione di una pandemia
Da allievo quasi modello a Paese con un livello di contagi tra i più alti al mondo: quale primo - e ancora molto parziale - bilancio si può stilare della gestione svizzera della pandemia? Intervista ad Andrea Arcidiacono, autore del libro "La maratona di Berset".
Durante la prima ondata, la Svizzera è stata presentata un po’ come un esempio da seguire nella gestione della pandemia. Le autorità elvetiche hanno rinunciato a un confinamento praticamente totale, come molti Paesi vicini.
Durante la seconda ondata, la ‘via svizzera’ – caratterizzata da un approccio liberale con ampie competenze lasciate ai Cantoni – sembra invece fare acqua da tutte le parti. La Confederazione è tra i Paesi più colpiti, con un tasso di contagi e di mortalità tra i più elevati in Europa.
Ne abbiamo discusso con Andrea Arcidiacono, consulente, economista e giornalista, che ha seguito passo dopo passo lo svolgersi degli eventi e ha appena pubblicato un libroCollegamento esterno nel quale, in particolare attraverso diverse lunghe interviste con il ministro della sanità Alain Berset, racconta i retroscena di una crisi sanitaria senza precedenti.
Allievo modello durante la prima ondata, ultimo della classe o quasi durante la seconda. Come si è arrivati a questa situazione?
È vero, durante la prima ondata la Svizzera è stato uno dei paesi più esemplari. Tutti erano sulla stessa linea. È stato dichiarato lo stato di necessità, quindi il Consiglio federale [Governo, ndr] decideva anche per i Cantoni e i Cantoni e la popolazione seguivano. È una fase che ho definito come la chiamata alle armi.
Poi il 19 giugno si è passati dallo stato di necessità alla situazione particolare, con maggiori competenze lasciate ai Cantoni. Una delle ragioni per cui è molto più difficile gestire la seconda ondata è che non c’è più un solo direttore d’orchestra, bensì ce ne sono praticamente 27 – il Consiglio federale e i 26 Governi cantonali – che tante volte faticano a trovare una linea comune.
I Cantoni e anche il Parlamento, che temevano una sorta di dittatura del coronavirus, avevano criticato i pieni poteri del Consiglio federale. Volevano avere più voce in capitolo nella gestione della crisi. Il ministro della sanità Alain Berset e il Consiglio federale hanno seguito la linea di dare più responsabilità ai Cantoni e finora questa via si è rivelata più difficile da gestire.
Quello che è rimasto, è che la Svizzera ha evitato il confinamento totale e il collasso del sistema sanitario. Il prezzo che paghiamo è un numero alto di persone vulnerabili che sono colpite da questo virus.
Se sono stati commessi errori, sono quindi piuttosto da cercare a livello dei cantoni?
È difficile adesso stilare un bilancio perché tutto cambia molto in fretta.
Penso però che i cantoni non siano stati all’altezza delle aspettative e il Consiglio federale, forse in modo ingenuo, ha dato loro troppa fiducia.
Poi c’è la popolazione. Quando siamo passati il 19 giugno alla situazione particolare, c’era un’atmosfera di speranza. In estate, la maggioranza della gente ha vissuto in modo più o meno normale e non è più stata unita come nella prima fase.
Il federalismo è una forma di governo fantastica per i periodi di bel tempo. In caso di crisi però mostra tutti i suoi limiti. È una constatazione che condivide alla luce di quanto successo in questi mesi?
Nella gestione della prima fase, il federalismo ha funzionato bene. È vero, la Confederazione ha assunto le competenze principali, consultando però sempre prima i Cantoni. Ciò ha permesso di rispondere in fretta alle necessità.
Adesso, nella seconda ondata, ci troviamo in situazione particolare e secondo la Legge sulle epidemie la Confederazione interviene solo quando è necessario per motivi di salute pubblica. Probabilmente questa situazione particolare mostra che ci sono dei limiti, perché alcuni Cantoni hanno fatto i compiti, altri no. Ognuno ha pensato un po’ al suo orticello e la solidarietà fra i Cantoni è venuta meno.
Dodici cantoni hanno chiesto qualche giorno fa che il Governo federale proclami lo stato di necessità, riprendendo in mano completamente la gestione della pandemia. Fino a poco tempo fa si invocava invece da più parti la necessità che fossero le autorità cantonali – più vicine alle realtà locali – a gestire la situazione. Non si sta giocando un po’ allo scaricabarile?
Sì, ci troviamo in una crisi con cambiamenti continui e paradossi. In giugno dicevano ‘vogliamo gestire noi’. Adesso hanno fatto l’esperienza, si sono scottati e chiedono che sia il Consiglio federale a gestire la crisi, nonché a pagare le indennità a quei settori toccati dalle restrizioni.
Non va dimenticato che i Governi cantonali sono rieletti ogni quattro anni ed è difficile per loro prendere delle decisioni drastiche, perché non vogliono ferire il loro elettorato. Quindi fa comodo che sia il Consiglio federale a prendere le decisioni per loro.
Se nella prima fase il ministro della sanità Alain Berset è stato generalmente lodato, oggi non gli vengono risparmiate critiche. L’Unione democratica di centro ha addirittura chiesto che gli venga ritirato il dossier Covid-19. Qual è il suo parere sull’operato del consigliere federale?
È positivo, perché sin da gennaio 2020, quando siamo entrati in gestione di crisi, è stato il punto di riferimento in Governo. In questi mesi è riuscito a mio avviso a compiere il passaggio da consigliere federale a vero e proprio uomo di Stato, poiché ha una visione sia di quello che è una gestione di crisi, sia di come uscire dalla crisi cercando sempre delle alternative, delle possibilità per non trovarsi di fronte alla scelta finale che è quella di chiudere tutto. Non da ultimo, la capacità di correggere degli errori.
Va però sottolineato che le decisioni vengono prese dal Consiglio federale e non da un singolo ministro. La difficoltà, soprattutto in questa seconda fase della pandemia in cui i Cantoni hanno un ruolo importante, è di trovare un consenso tra chi è per più per una linea severa in materia di sanità pubblica e chi è più vicino all’economia.
Per un bilancio dell’operato di Berset e del Consiglio federale in generale è comunque troppo presto. Si potrà stilarlo probabilmente solo tra alcuni anni.
Appena qualche giorno fa, l’epidemiologo bernese Christian Althaus ha lasciato la task force Covid-19 del Consiglio federale, criticando il fatto che la politica non ascolti abbastanza gli esperti, molti dei quali chiedono da settimane un ulteriore giro di vite per fermare la diffusione del virus. Come legge queste divergenze tra politica e scienza?
L’apporto degli scienziati è primordiale, soprattutto in una situazione di crisi come questa, con un virus che era completamente sconosciuto. Le conoscenze scientifiche sono quindi fondamentali.
“Il ruolo della scienza è di indicare la via, non di sostituirsi alla politica”.
Tuttavia, il ruolo della scienza è di indicare la via, non di sostituirsi alla politica. La politica deve fare la sintesi tra numerosi aspetti: non solo la situazione sanitaria, ma anche quella economica o l’accettazione di determinate misure tra la popolazione.
Alcuni scienziati hanno capito bene il gioco delle parti, altri meno e hanno a volte la sensazione di non essere ascoltati abbastanza.
Alla base c’è quindi un malinteso iniziale tra scienza e politica, che nessuna delle due sfere ha saputo o voluto finora sanare.
Nessun paese era preparato ad affrontare una simile crisi. Da uno Stato come la Svizzera, che ha la reputazione di essere bene organizzato, ci si sarebbe però potuti aspettare un livello di preparazione un po’ più elevato, tanto più che esisteva un piano pandemia. Uno degli aspetti che emerge dal suo libro è proprio l’impreparazione del paese: mancanza di materiale protettivo, un sistema sanitario frammentato, lacune flagranti per quanto concerne la trasmissione dei dati, che inizialmente avveniva in parte ancora via fax…
Questa impreparazione si spiega con il fatto che, a parte la Sars nel 2003-2004, non eravamo più abituati a gestire un’epidemia.
In Svizzera esisteva il piano pandemico, ma non è stato applicato dai Cantoni. Avere 26 sistemi sanitari non facilita le cose, perché è difficile controllare se tutti rispettano le direttive. Anche la popolazione in teoria avrebbe dovuto avere 50 mascherine a casa, però poche persone le avevano.
Si era pronti a livello teorico, ma non pratico. Durante i periodi di bel tempo, è difficile giustificare il fatto che si acquistino milioni di mascherine o centinaia di ventilatori per prepararci a una possibile crisi.
La Svizzera non è reputata solo per la sua organizzazione, ma anche per la sua ricchezza e per il suo debito pubblico estremamente basso. Eppure, stando alle statistiche del Fondo monetario internazionale, finora è stato uno dei paesi più avari per quanto concerne l’aiuto alle imprese colpite dalla pandemia (4,8% del Pil in Svizzera, contro l’8,3% in Germania o l’11,8% negli Stati Uniti). Come spiega questa parsimonia?
Per tradizione, la Svizzera ha una gestione molto oculata dei soldi pubblici. Abbiamo anche un sistema di freno all’indebitamento che impone di compensare i disavanzi. Quanto speso dalla Confederazione durante questo periodo pandemico dovrà essere compensato nei prossimi anni.
Penso però che sia vero solo in parte che la Svizzera sia stata parsimoniosa. Durante la prima ondata sono stati sbloccati fondi per circa 70 miliardi di franchi.
La difficoltà in questa seconda ondata è costituita dal fatto che per i cosiddetti aiuti in caso di rigore [quelle imprese particolarmente colpite dalle restrizioni in vigore, ndr] sono previsti criteri che nella pratica si rivelano molto onerosi e burocratici. È quindi necessario snellire queste procedure.
Cultura del compromesso, lunghe consultazioni, dialogo con tutte le parti in causa… durante la crisi, questi aspetti che fanno parte del DNA del sistema politico svizzero sono stati messi in sordina. La Confederazione uscirà diversa da questa pandemia?
Penso che questa crisi possa dare una spinta per una valutazione su una revisione di tutto il sistema della gestione sanitaria e di riflesso sul sistema federalistico.
Forse per alcuni compiti essenziali dello Stato, come appunto la sanità, ci si dirigerà verso una gestione non più a livello cantonale, bensì regionale.
Infine, l’auspicio è che dopo questa crisi ci sia una riconciliazione, perché in questo momento c’è una grande contrapposizione di interessi, di pareri. Alcuni partiti diventano molto aggressivi e anche tra le regioni e la popolazione si sono create profonde divisioni.
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