“Non vedo più l’handicap, ma bambini con altre qualità”
Dove la gente distoglie lo sguardo, Fernand Melgar punta la telecamera. Il suo nuovo film, "À l'école des philosophes", apre giovedì le Giornate cinematografiche di Soletta con il racconto dei primi passi di cinque bambini in una scuola speciale. Il regista svizzero si interroga su che spazio hanno la disabilità e la differenza nella nostra società. Intervista.
Sono giorni di rientro, alla scuola di rue des Philosophes a Yverdon, nel cantone di Vaud. Davanti alla telecamera di Fernand MelgarCollegamento esterno, si incrocia e si intreccia il percorso di due bambini e tre bambine disabili. Louis et Léon sono affetti da una forma di autismo, Albiana da un tipo di trisomia, Kenza è pluridisabile e Chloé ha una malattia ereditaria. Circondati da professionisti, i piccoli devono superare le loro difficoltà per “imparare il mestiere di alunni”, come dice l’insegnante Adeline.
Poco a poco, le urla, i pianti e l’agitazione lasciano spazio ai sorrisi, agli sguardi maliziosi, le risate e i gesti di solidarietà. Il cineasta capta i progressi degli allievi, gli occhi lucidi dei genitori che per la prima volta affidano ad altri un bambino fragile, le piccole vittorie che, talvolta, sconfessano le prognosi mediche. Malgrado gli imprevisti della vita, e malgrado l’handicap, davanti allo spettatore prende forma una gioia contagiosa.
A quattro anni da “Il rifugio”, documentario dedicato ai senzatetto, Fernand Melgar inaugura le Giornate del cinema di SolettaCollegamento esterno con “Alla scuola dei FilosofiCollegamento esterno“, in concorso per il Prix de Soleure. Il regista svizzero continua così la sua lotta per “portare alla luce i margini della nostra società”.
swissinfo.ch: Lei si è fatto conoscere con documentari sull’asilo e la migrazione. Perché questa volta ha scelto di trattare il tema dell’handicap?
Fernand Melgar: La tematica è certamente un po’ diversa, ma il mio cinema non cambia. L’alterità, lo sguardo sull’altro, l’accettazione del diverso e i valori che cerco di difendere con tutti i miei film. Interessandomi a una scuola speciale e a questo piccolo gruppo di bambini, mi interrogo su quale spazio ha la convivenza nella nostra società, sempre più incentrata sulle prestazioni e sulla competitività. Nel 2016, gli svizzeri hanno votato a favore della diagnosi preimpianto, e anch’io ero favorevole perché trovo essenziale che dei genitori che rischiano di trasmettere una malattia possano scegliere. Tuttavia, con la diagnosi, la maggior parte dei protagonisti del film -in particolare Albiana, che è affetta da una forma di trisomia- potrebbero non essere nati. Mi interrogo quindi sul concetto di umanità. Da che momento siamo umani?
Ha seguito questi bambini per quasi un anno e mezzo. Come ha scelto il luogo e i protagonisti del film?
Ho scelto la scuola della Fondation VerdeilCollegamento esterno a Yverdon perché ha sede nel cuore della cittadina, mentre in genere questi istituti si trovano piuttosto fuori dal centro. Anche se non lo ammettiamo, tentiamo di nascondere le persone che vivono in condizione di disabilità. Inoltre, questa classe mi dava l’occasione unica di osservare la formazione di un gruppo, poiché cominciava da zero: tutti gli alunni erano nuovi.
Quando ho riunito tutte le famiglie per sapere se erano d’accordo che io realizzassi un documentario all’interno della struttura, hanno accettato all’unanimità. Ma non era abbastanza. I bambini e io abbiamo dovuto socializzare. Spesso, sono estremamente espressivi e diretti: all’inizio può mettere in imbarazzo. Anziché quella verbale sviluppano altre maniere di comunicare: se non sono contenti, gridano, se lo sono, ti abbracciano. Questo rapporto così diretto mi ha colpito e coinvolto, durante le riprese.
All’inizio del film, la classe appare ingestibile e la situazione caotica. Poi si scopre che ciascun bambino fa dei progressi, talvolta contro ogni probabilità, e nel gruppo si instaura un’armonia. Com’è possibile questo piccolo miracolo?
Vi contribuiscono una serie d’ingredienti. Prima di tutto, l’amore. L’amore provato per questi bambini dai loro genitori, ma anche dal personale, mi ha impressionato. Li fa sbocciare come fiori. All’inizio del film Kenza, che è pluridisabile, è amorfa. A un certo punto, la si vede alzare la testa e sorridere. È una delle più belle scene del film. Mi commuove perché mi fa credere nell’umanità. Si constata anche fino a che punto l’educazione può far progredire una persona, che sia portatrice di handicap o meno. La vita, alla fine, riesce sempre a farsi strada.
Oggi, le scuole sono tendenzialmente inclusive. L’affidamento di scolari disabili alle scuole speciali le sembra più opportuno?
No, credo che ognuno sia un caso a sé. In questi ultimi anni, la tendenza è di sforzarsi di integrare bambini portatori di handicap in classi ordinarie, ma per quanto l’intenzione sia buona, i risultati non sono sempre soddisfacenti. In alcuni casi, i bambini con disturbi sono ostracizzati all’ interno della classe. Alcuni insegnanti si sentono sperduti. Léon, uno dei due bambini autistici, oggi passa uno o due giorni la settimana in una scuola comune. È un approccio ideale per lui, che all’inizio delle riprese era completamente chiuso. Con altri alunni, questa integrazione non è tuttavia possibile. Non esiste una regola; serve che il bambino sia al centro di ogni scelta e non ci si accontenti di applicare una decisione di principio.
Questo film ha cambiato il suo sguardo sulla disabilità?
Non vedo più l’handicap, vedo dei bambini che hanno sviluppato altre qualità, che hanno le loro peculiarità. Ho imparato molto, di queste persone di fronte alle quali si tende a distogliere lo sguardo. Mi sembra che la nostra società guardi la disabilità con una certa indifferenza. Siamo consapevoli che ci sono delle istituzioni che se ne occupano, ma ci sentiamo a disagio a interagire con una persona disa
bile che si siede accanto a noi. Eppure, sono esseri umani che hanno il diritto di far parte della società come chiunque altro e possono dare qualcosa. Spero che il film contribuisca a cambiare lo sguardo dello spettatore su questi bambini.
Fernand Melgar
Fernand Melgar nasce nel 1961 in Marocco da una famiglia di sindacalisti spagnoli esiliati durante il franchismo. A 2 anni, i suoi genitori lo portano clandestinamente con sé in Svizzera, dove lavorano come stagionali. Nel 1980, fonda a Losanna il Cabaret Orwell, culla della musica underground della Svizzera francese. Tre anni più tardi, debutta nel cinema. I suoi documentari sull’accoglienza e l’espulsione dei richiedenti asilo –”La fortezza” (La forteresseCollegamento esterno, 2008), “Volo speciale” (Vol spécialCollegamento esterno, 2012) e “Il rifugio” (L’abriCollegamento esterno, 2014)- hanno ottenuto diversi riconoscimenti e suscitato accesi dibattiti politici.
Traduzione dal francese di Rino Scarcelli
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