Bührle e le “ragazze” italiane
Nella sua filanda in Toggenburgo, l'industriale Emil Bührle impiegò oltre a svizzere vittime dell'internamento coatto anche giovani italiane. Il consolato italiano intervenne in loro difesa.
Nel novembre 1955 c’è subbuglio nell’istituto di Maria, a Dietfurt nel Canton San Gallo. Due cugine italiane si oppongono alle condizioni di alloggio di tipo quasi carcerario. Quando la madre superiora del centro manda via le ribelli, altre otto giovani se ne vanno per solidarietà e protesta. “C’è indignazione tra le italiane”, annotano le suore del convento di Ingenbohl responsabili del Marienheim.
Le cugine alloggiano solo da quattro mesi nell’istituto. Lavorano con una trentina di italiane presso la filanda e la tessitura della ditta Bührle. Le italiane risiedono negli stessi alloggi delle quasi 60 ragazze vittime di internamento coatto. Le lavoratrici straniere hanno qualche libertà in più rispetto alle svizzere, ma anche la loro quotidianità è fatta di lavoro e chiesa.
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Le suore del convento di Ingenbohl gestiscono l’istituto per conto della filanda e della tessitura Dietfurt AG. La ditta e il centro d’accoglienza per ragazze appartengono dal 1941 a Emil Bührle. In quegli anni è l’uomo più ricco della Svizzera. A Zurigo-Oerlikon, l’industriale e collezionista d’arte è conosciuto per la sua intransigenza nei confronti dei fomentatori e di chi difende i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Anche nell’istituto nel Toggenburgo non si fanno eccezioni per chi si ribella, nemmeno per le due cugine italiane.
+ l’articolo originale pubblicato dalla rivista BeobachterCollegamento esterno
Le ragazze “si rifiutano di eseguire gli ordini della madre superiora” si legge nella cronaca dell’istituto conservata nell’archivio del convento di Ingenbohl. I motivi della ribellione non sono stati specificati, ma ce n’erano molti.
Le suore isolano dal resto del mondo le giovani donne. Impediscono loro di fare visita ai parenti e decidono cosa possono fare nel loro tempo libero, proponendo loro, ad esempio, la visione di un film con un prete italiano oppure possono partecipare alla benedizione nel luogo di pellegrinaggio di Maria Bildstein nella piana della Linth.
Con la loro severità, le suore del convento vogliono proteggere le giovani cattoliche dalle possibili tentazioni. L’obiettivo principale è preservare la verginità delle ragazze. Temono l’immoralità del mondo esterno e impediscono quindi qualsiasi contatto con gli uomini.
Manodopera a buon mercato
Quando le ha castigate, la madre superiora non ha però fatto i conti con la solidarietà tra le giovani lavoratrici straniere. Visto che temono una ribellione generale dopo il licenziamento delle due cugine, le suore chiedono a una donna di lingua italiana di fare da mediatrice. Questa parla con ogni ragazza, senza riuscire però a far cambiare loro idea. Alla fine, undici italiane lasciano l’azienda di Bührle.
All’epoca, i rocchetti di filo in Svizzera ruotano spesso grazie alle abili mani delle lavoratrici italiane. Negli anni Cinquanta, le aziende tessili impiegano più manodopera che l’industria orologiera. Stando alle statistiche, il 55% erano donne. Per mantenere bassi i salari, le ditte impiegano giovani italiane che sistemano in alloggi privati o in istituti cattolici.
Le suore di Ingenbohl e Menzingen fanno di tutto per tenere le giovani donne lontane dai vizi. Il reclutamento di dipendenti italiane ha una lunga tradizione. L’Italia inasprisce la legge sull’emigrazione nel 1910 visto che le aziende tessili svizzere si recano in Italia per reclutare la loro forza lavoro.
Nel giugno 1956, la situazione nell’istituto di Maria si aggrava nuovamente. Tre italiane si rivolgono al direttore della filanda, criticando il fatto che le suore vietano loro di lasciare gli alloggi la domenica dopo cena. Il direttore non si intenerisce e sostiene la madre superiora, come si legge nella cronaca dell’istituto.
Pochi giorni dopo, Isabella Durante*, una delle tre italiane, chiede il permesso di visitare lo zio a Zurigo. Il direttore glielo nega. La giovane disobbedisce e si reca comunque in città. Quando il lunedì mattina ritorna al lavoro, il direttore la licenzia sui due piedi. Isabella deve lasciare l’istituto la stessa sera. “Forse questo licenziamento immediato fa rinsavire le italiane”, annota una sorella.
Isabella Durante non ritorna dai genitori in Italia, ma si rivolge al consolato italiano a San Gallo. Si lamenta dell’azienda tessile Bührle a Dietfurt. La madre superiora deve recarsi nella capitale cantonale per un colloquio, dove il console la invita a spiegare le regole dell’istituto e dell’azienda alle italiane prima che queste accettino l’incarico affinché le impiegate sappiano a che cosa vanno incontro.
Le donne svizzere sono messe peggio
Tra il 1959 e il 1961, anche Irma Ehrler alloggia presso la struttura di Maria a Dietfurt e si ricorda molto bene delle italiane. “La maggior parte lavorava nella filanda nel villaggio vicino, fabbrica che raggiungevano ogni mattina a bordo di un pullmino”, racconta. Dopo il turno del mattino, le italiane hanno la possibilità di andare a fare la spesa in paese. Alle svizzere è invece vietato.
“Se ci comportavamo bene, di sabato ci era concesso di andare nella chiesa di Bütschwil a pregare. E la domenica pomeriggio potevamo trascorrere quattro ore all’aperto, soltanto se eravamo state ubbidienti durante la settimana”.
“Se ci comportavamo bene, di sabato ci era concesso di andare nella chiesa di Bütschwil a pregare. E la domenica pomeriggio potevamo trascorrere quattro ore all’aperto, soltanto se eravamo state ubbidienti durante la settimana”. E dopo il turno serale che termina alle 22:00, la cena è servita solo alle svizzere che hanno recitato prima le preghiere nella cappella.
Il servizio sociale di Sciaffusa ha affidato Irma Ehrler alle sorelle di Dietfurt. La diciottenne riceve dalle suore cinque franchi al mese per le piccole spese. “A vent’anni ho lasciato l’istituto senza un centesimo in tasca. Mi è stato comunicato che il mio salario era servito per pagare vitto e alloggio, la biancheria intima e i vestiti caldi per l’inverno”.
Le ragazze svizzere si confezionano da sole i vestiti più leggeri per l’estate. Li realizzano con resti di tessuto che possono acquistare nella tessitura dell’azienda, una spesa che viene loro detratta dal salario. Irma Ehrler, che da sposata porta un altro cognome, ricorda molto bene le ore trascorse insieme alle italiane a cucire i vestiti su misura.
“Tutte ancora sulla retta via”
Dal 1968, l’istituto a Dietfurt non accoglie più ragazze svizzere. Il convento di Ingenbohl rescinde il contratto con la fabbrica Bührle. Le suore non riescono più a gestirlo visto che sempre meno donne vogliono entrare in convento. Finisce così la collaborazione tra le sorelle di Ingenbohl e il Marienheim durata 104 anni. In questo periodo si sono succeduti tre proprietari del filatoio e le suore hanno chiuso gli occhi di fronte al lavoro minorile e al lavoro forzato. Quasi mai è stato puntato il dito accusatore contro le monache per la loro connivenza.
Già nel 1905, in un giornale operaio di San Gallo, la socialista Angelica Balabanoff denunciava le case delle ragazze come “istituzioni penali clerico-capitaliste”, in cui le giovani lavoratrici venivano sistematicamente sfruttate sotto il manto dell’amore cristiano per il prossimo. L’articolo non ha però scosso le coscienze. Nel Dopoguerra, nonostante fosse vietato dal 1941, le autorità assistenziali continuoano a mandare le ragazze a Dietfurt dove sono obbligate a lavorare.
Il 18 settembre 1968, l’ultima madre superiora di Dietfurt esprime la sua gratitudine “per il fatto che tutte le ragazze non hanno abbandonato la retta via grazie all’agire benedetto delle suore”, si legge nella cronaca del convento. Ciò significa che tutte le giovani sono giunte vergini al matrimonio.
In seguito, il Marienheim viene gestito da tre sorelle italiane che hanno perso il posto di lavoro a causa della chiusura della filanda di Siebnen, nel canton Svitto. Prassi voleva che le lavoratrici straniere alloggiassero in simili istituti. Fino agli anni Settanta era una pratica comune in molte aziende tessili.
I padroni sono scontenti
In una lettera al Consiglio federale del 5 febbraio 1971, l’Associazione padronale si lamenta che non è più possibile riempire gli “alloggi per ragazze” con le straniere. È quanto emerge da un documento dell’Archivio federale.
Circa un terzo della manodopera delle filande è alloggiato in istituti come il Marienheim. “Giovani ragazze provenienti da Italia e Spagna vengono mandate in Svizzera per guadagnarsi la dote […]”, si legge nel documento.
Gli industriali del settore informano il consigliere federale responsabile Ernst Brugger sull’importanza di questi istituti. Si legge inoltre nella lettera che il contatto delle straniere con la popolazione locale è minimo e che quindi non c’è il problema “dell’inforestierimento psicologico”.
Il presidente dell’associazione Gabriel Spälty-Leemann di Netstal, nel canton Glarona, sostiene addirittura che “gli istituti per ragazze possono essere considerati una sorta di aiuto allo sviluppo. Oltre alla possibilità di conseguire un salario, le ragazze provenienti da contesti relativamente primitivi imparano a svolgere le faccende domestiche e ricevono un’educazione generale”. Nel 1971, il Marienheim ospita ancora 19 italiane. 46 letti sono vuoti. Non c’è alcuna indicazione su quando l’ultima lavoratrice italiana ha lasciato l’istituto.
*Nome modificato
Traduzione di Luca Beti
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