Un master in medicina più sul campo che si può
Si sta per concludere il primo semestre per i primi 50 studenti del nuovo Master in Medicina offerto dall’Università della Svizzera italiana (USI). Un percorso accademico che si svolge in buona parte sul campo -proprio mentre le strutture sanitarie affrontano una seconda ondata di Covid-19- e che punta a una formazione, oltre che scientificamente valida, umanamente sensibile. Ne abbiamo parlato con il decano-fondatore della Facoltà di scienze biomediche dell’USI.
Ogni anno, in Svizzera, vanno in pensione circa duemila medici e ne vengono formati soltanto mille. Su impulso della Federazione svizzera (FMH), l’USI ha sviluppato insieme ad altri tre atenei -Università di Basilea, Politecnico federale ETH di Zurigo e Università di Zurigo- un nuovo percorso di studi in medicina per incrementare la disponibilità di posti di formazione.
La facoltà ticinese non offre un percorso di bachelor, per il quale rimanda agli atenei partner, ma offre un interessante approdo a chi ha concluso la formazione triennale in Svizzera oppure ha il passaporto o la maturità svizzeri e ha studiato per tre anni medicina all’estero superando con successo gli esami.
tvsvizzera.it: Professor Mario Bianchetti, cosa rende questo master un percorso accademico unico in Svizzera?
M.B.: La Confederazione ha regolamentato moltissimo lo studio della medicina quindi dobbiamo attenerci a certe regole. A renderlo unico è che abbiamo spinto al massimo la formazione pratica: gli studenti di biomedicina dell’USI sono due giorni la settimana in ospedale o in ambulatori di medici. Anche la formazione gli altri tre giorni è spesso molto pratica, ad esempio esercitazioni con manichini o discussioni di casi reali in piccoli gruppi di meno di dieci studenti.
Tutto questo nel pieno di una seconda ondata di Covid: è un ostacolo o uno stimolo alla formazione?
Al momento gli studenti rimangono a casa loro per le lezioni classiche frontali, anche in piccoli gruppi, per evitare il contagio della malattia. Invece gli ospedali -e qui devo ringraziare i responsabili- sono riusciti a fare in modo che gli studenti possano continuare a frequentarli anche durante questa epidemia. È decisamente complesso, bisogna applicare delle regole particolari ma gli studenti vi si attengono rigorosamente per cui tutto continua molto bene.
Il master si svolge in lingua inglese ma, nell’ottica della formazione sul campo, è richiesta una conoscenza basilare dell’italiano, che viene poi sostenuta con un corso di lingua. Tre quarti degli attuali iscritti sono germanofoni, oltre metà proviene dall’ETH. Durante la pratica clinica, un medico segue due studenti.
Io pensavo però al fatto che in alcune strutture vengano rimandati trattamenti meno urgenti.
Evidentemente impareranno tanto dal Covid. Ma in altre università della Svizzera le esercitazioni pratiche con pazienti o in ospedale sono state sospese completamente, mentre noi siamo riusciti, e ne siamo orgogliosi, ad andare avanti.
Master in medicina umana è una denominazione standard oppure quell’aggettivo significa qualcosa di preciso?
Gli studenti parlano normalmente di studiare medicina. I regolamenti parlano di medicina umana [in contrapposizione a quella veterinaria] e a noi è parso importante lasciare questo aggettivo anche perché c’è una forte preoccupazione affinché la formazione sia, oltre che scientificamente di buon livello, anche umanamente sensibile. Si tratta non solo di fare una diagnosi ma di accompagnare chi è malato a vivere in qualche modo positivamente anche la situazione difficile della malattia.
Costruire un programma di formazione da zero è stato un vantaggio?
È stato faticoso ma certamente un vantaggio. Non appena ci siamo messi a lavorare, la Confederazione ha emanato delle nuove raccomandazioni per l’insegnamento che puntano molto su aspetti come la comunicazione e la collaborazione con le altre persone che lavorano nel campo sanitario. Quindi abbiamo messo da subito in piedi un curriculum di studi adeguato alle nuove raccomandazioni, il più moderno possibile. Per le altre facoltà -che sono prestigiose e insegnano medicina da tanto tempo- cambiare improvvisamente sulla base di un intervento esterno è stato più problematico.
Per tutti gli studenti è previsto anche il passaggio da uno studio medico di famiglia. Perché è importante?
Faranno tutti uno stage sia da un medico di famiglia sia da un pediatra, perché in fondo la pediatria fa parte in senso lato della medicina di famiglia. È importante perché la medicina non è solo quella ad alta tecnologia dei grandi ospedali, ma anche quella degli ambulatori medici. Il secondo scopo è che in Svizzera mancano sì medici ad ogni livello, ma in particolare i medici di famiglia, specie nelle regioni un po’ periferiche. Per cui speriamo che questa attività risulti per gli studenti interessante e possano decidere di diventare anche medici di famiglia.
Partecipano all’attività di insegnamento -con diversi professori- l’Istituto di ricerca in biomedicina (IRB) e l’Istituto oncologico di ricerca (IOR) di Bellinzona, da qualche tempo affiliati all’Università della Svizzera italiana. Importante anche il contributo dell’Istituto scienze computazionali della stessa USI.
La speranza è che i medici che si formano a sud delle Alpi restino poi a esercitare qui. Ma dove si fa formazione e ricerca si cura anche meglio? Oltre al numero di medici crescerà anche la qualità delle cure?
Certo. Gli ospedali ticinesi hanno da diversi anni un’esperienza di ricerca e penso che quest’ultima migliori anche la qualità delle cure. La presenza degli studenti accentuerà sicuramente un po’ la ricerca, perché ogni studente dovrà fare un lavoro di master e molti faranno anche lavori di dottorato. Inoltre, la presenza dello studente obbliga chi insegna a essere sempre preciso in quel che dice e ricontrollare quel che fa.
La facoltà di biomedicina pone le basi per un ospedale universitario a sud delle Alpi?
Certamente. Non è per domani e neppure per dopodomani, ma la presenza di una facoltà dovrebbe costituire uno stimolo. La questione di cosa sia un ospedale universitario è molto complessa, non esiste una definizione, tanto è vero che si è creato un gruppo di lavoro. Che l’ospedale di Berna fosse universitario lo si sapeva già duecento anni fa, ai tempi non c’era una preoccupazione giuridica. Adesso col nostro arrivo si dovrà anche ridefinire che cos’è un ospedale universitario. Ma certamente arriveremo anche in Ticino ad averne uno.
In passato Lei ha parlato della possibilità di instaurare rapporti con la vicina Lombardia. A cosa si riferisce?
La Lombardia è una regione dove esistono servizi ospedalieri di altissimo livello e facoltà di biomedicina prestigiosissime. Ci sono delle collaborazioni puntuali, come quelle che io ad esempio intrattengo con la clinica pediatrica di Milano perché sono pediatra. Noi pensiamo che questo rapporto debba svilupparsi, e a diversi livelli: di ricerca ma anche di formazione, nel senso che potremmo chiedere alla Lombardia di metterci a disposizione insegnanti in campi nei quali non siamo perfettamente aggiornati, e offrire la possibilità a nostri studenti di lavorare in Lombardia e viceversa. Le prospettive ci sono e di recente abbiamo avuto anche incontri a questo scopo.
Il Prof. Dr. med. Mario Bianchetti è stato primario di pediatria all’Ospedale regionale di Bellinzona e Valli e capo del Dipartimento di pediatria dell’Ente ospedaliero cantonale (EOC). A fine 2020 lascerà il decanato della Facoltà di scienze biomediche dell’USI dopo averla guidata per cinque anni. La Facoltà, oltre al Master, offre programmi di dottorato e post-laurea.
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Se volete segnalare errori fattuali, inviateci un’e-mail all’indirizzo tvsvizzera@swissinfo.ch.