Francesco Guccini, un uomo di parola
Il cantautore emiliano compie martedì 82 anni. Una vita che ha avuto e ha come filo conduttore le parole.
Dici Guccini (nato il 14 giugno 1940) e pensi a uno dei cantautori italiani più amati e più importanti. Pensi a tante cose, alla canzone impegnata, a osterie e fiaschi di vino, a discorsi fino alle ore piccole. A un omone grande e grosso e barbuto, dalla grande cultura e dalle schiette radici montanare: non per niente lo chiamano il Maestrone. Le cose oggi non stanno più esattamente così, alcune non lo sono mai state per davvero ma fanno parte dell’aura che circonda il personaggio.
+ Francesco Guccini negli archivi RSICollegamento esterno
Di osterie, lo ha detto lui stesso recentemente, non è poi questo grande esperto. Sul palco un fiasco di vino non ce l’ha mai avuto: bottiglie sì ma bevendone giusto un paio di sorsi, perché in concerto occorre essere ben lucidi. Ora la barba è molto più corta di come la portava negli anni Settanta e Ottanta. Soprattutto, il cantautore non lo fo più. Basta dischi, basta concerti. Lo aveva annunciato nel 2012, lo ha ribadito nel 2017. Si è ritirato nella sua amata Pàvana sull’Appennino tosco-emiliano. Scrive libri. È da un pezzo che lo fa, già dalla fine degli anni Ottanta. Oggi è persino nella cinquina dei finalisti del Campiello con il suo ultimo romanzo Tralummescuro. Quello che sembra non cambiare mai è il fortissimo legame di Francesco Guccini con le parole. Parole lette, parole cantate, parole scritte, pensate e vissute: è forse questa qua la costante più costante di tutte nella sua carriera e nella sua vita. Parole, alte e “basse”, con cui gli è sempre stato così facile giocare.
Di se stesso, di come è cresciuto, di come vede il mondo, Guccini ha detto tanto, sia nei libri sia, prima ancora, nelle canzoni. Se l’esordio discografico ufficiale è del 1967 con l’album Folk Beat N.1 (a nome semplicemente di “Francesco”), dalla musica è stato rapito ben prima, già da adolescente, come tanti. All’inizio, siamo negli anni Cinquanta, è il rock’n’roll all’italiana. La musica non lo abbandona mentre studia alla facoltà di Magistero e dopo una breve esperienza come istitutore prima e giornalista alla Gazzetta di Modena poi, alla musica ci torna suonando in alcune orchestre da ballo. Poco ci manca che entri nell’Equipe 84, verso la metà degli anni Sessanta. Ma intanto comincia a imporsi come autore, sia per loro, sia per i Nomadi, sia per Caterina Caselli: già prima di “mettersi in proprio”, ha scritto alcuni fra i brani più noti e amati della sua carriera, come Auschwitz, L’Antisociale, Noi non ci saremo o Dio è morto. Da allora, in oltre quarant’anni di musica, ha sfornato sedici album di inediti – l’ultimo dei quali, uscito nel 2012, è L’ultima Thule – varie antologie e ben sette album dal vivo, fra cui anche Live @RTSI, uscito nel 2001 ma registrato a Lugano nel 1982 durante la trasmissione Musicalmente.
Diverse suggestioni confluiscono nel suo bagaglio musicale. Ci sono Brel e Brassens, la canzone francese; c’è l’influenza di un gruppo di intellettuali che negli anni Cinquanta cercavano di portare un rinnovamento nell’ambito della canzone italiana, i cosiddetti Cantacronache; il beat, il folk, la canzone popolare… E poi arriva Dylan. Tutte queste cose – e molte altre – Guccini le raccontava nel 2002, intervistato – insieme a Umberto Eco – da Renato Giovannoli per Laser, su RSI Rete Due. Il musicologo Paolo Jachia, parlando di Stagioni (2000), ha invece tracciato una mirabile sintesi degli elementi presenti nei lavori di Guccini, considerando quell’album “una summa delle tematiche che accompagnano tutta la produzione artistica e intellettuale di Francesco: l’esistenzialismo, la polemica contro tutte le ingiustizie e i falsi ideali, il vivere giornaliero e lo scorrere inesorabile del tempo, la rabbia e l’indignazione per la propria impotenza a cambiare le cose e la vita, e poi l’amore, visto come specchio di se stessi, delle proprie belle illusioni e anche delle proprie fragilità, e ancora, la fantasia e l’ironia e l’umorismo come baluardo contro l’inutile follia realista degli uomini integrati al potere, e poi la coerenza con la propria storia e le proprie radici, la coscienza dell’appartenere, in senso profondo, alla terra e al popolo (…)”.
A scorrere i dischi e le canzoni di Guccini non si può non dargli ragione. L’impegno, l’ideale di giustizia sociale è con lui da sempre: La locomotiva ne è una delle testimonianze più celebri. Accompagnato costantemente dal rifiuto di abbracciare certezze dogmatiche, rimanendo invece sempre dalla parte del dubbio, Guccini appartiene all’area della sinistra. Ma anche qui qualche mito va sfatato. “Non sono mai stato comunista”, ha dichiarato ad Aldo Cazzullo, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, “Tutti credono che lo sia; ma non è vero. (…) lo stalinismo non poteva piacere a uno come me: libertario, azionista. I miei eroi sono i fratelli Rosselli e Duccio Galimberti (…). Semmai, lo dico con grande ritegno, mi sentivo anarcoide. Avvertivo il fascino dell’anarchia, dal punto di vista più romantico che reale”.
Alle sue Radici, Guccini dedicava poi già l’album omonimo del 1972. Ci tornerà sempre, a riflettere su chi è e da dove viene, sui legami familiari, sulla sua terra vissuta e immaginata. Come in Amerigo (1978), un album che non contiene solo Eskimo – racconto di una storia d’amore finita che dipinge il contesto dell’Italia del tempo – ma anche l’omonimo brano ispirato allo zio emigrante. La vena intimista pulsa forte fin da Stanze di vita quotidiana (1974). Ai giudizi espressi da alcuni esponenti della critica su quel disco – storia nota – Guccini rispose con L’Avvelenata, contenuta in Via Paolo Fabbri 43 (1976): un pezzo amatissimo dai suoi fan, meno da lui. La discografia di Guccini non si esaurisce però nei suoi brani più famosi. Spesso si trovano perle nascoste e preziose. Una su tutte è Odysseus, dall’album Ritratti (2004), che con la sua struggente ed evocativa poetica, con i suoi riferimenti omerici, riverbera anche un altro tema caro a Guccini, quello del viaggio. Nella sua opera, qualunque forma prenda, c’è sempre tutta una geografia del cuore e della mente che la pervade e la sorregge. Ci sono posti sognati, mitizzati, lontani ma anche molto vicini. Ci sono Modena, dove è nato, Pàvana, dove ha passato parte dell’infanzia durante la guerra e dove è tornato a vivere con Raffaella, sposata in seconde nozze nel 2011. E naturalmente c’è Bologna, città così importante e simbolica per lui da finire anche nell’album Metropolis (1981) insieme a Bisanzio, Venezia e Milano.
Letteratura – classici ma non solo – e lettura sono sue compagne da sempre, anche se oggi la vista gli dà problemi e lo costringe a ricorrere agli audiolibri. Di pari passo vanno lo scrivere e, più in generale, il raccontare, che fanno parte della sua natura. L’amato giornalismo in gioventù, lasciato solo perché non si guadagnava abbastanza, le canzoni e poi, senza sorpresa, i libri. L’esordio da romanziere è del 1989 con Cròniche epàfaniche. Ci si ritrova molto del vissuto di Guccini, così come nelle opere successive, come Vacca d’un cane o Cittanova Blues fino al più recente Tralummescuro. Ha letto tanto e scritto tanto Guccini, anche insieme a Loriano Macchiavelli, con il quale, a partire del 1997 con Macaronì, ha dato vita alla fortunata saga giallistica del commissario Santovito.
Una figlia, Teresa (avuta nel 1978 dalla sua compagna di allora), un precedente matrimonio alle spalle, una schiera di fan che attraversa più generazioni, la stima dei colleghi testimoniata anche recentemente da Note di viaggio – Capitolo 1 venite avanti, dove numerosi artisti italiani reinterpretano le sue canzoni (e c’è pure un suo rarissimo inedito post-ritiro, Natale a Pàvana); incursioni nel cinema (come in Radiofreccia di Luciano Ligabue) e nel fumetto (ad esempio come sceneggiatore di Storie dello spazio profondo di Bonvi); e poi una lunga lista di riconoscimenti e onorificenze, dai tanti Premi e Targhe Tenco al titolo di Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana…
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