Gli Zagabri: quegli ebrei jugoslavi scappati in Svizzera dalla Valtellina
Durante la Seconda guerra mondiale la Svizzera è stata un rifugio per migliaia di persone. Furono oltre 50'000 i profughi civili, in particolare oppositori politici e soprattutto ebrei, accolti nella Confederazione. Molti di loro entrarono dalle frontiere dei cantoni meridionali confinanti con l’Italia. Tra loro anche gli Zagabri, 218 persone provenienti dalla Croazia e internati ad Aprica, in Valtellina.
Erano oltre 200 e furono internati nel piccolo paese valtellinese situato a meno di 20 chilometri dal confine svizzero. Non tutti ebrei: tra loro anche qualche dissidente politico, comunisti e persone di religione ortodossa. Provenivano dalla Croazia degli Ustascia che, sotto il comando del feroce Ante Pavelic e la complicità delle truppe fasciste italiane stanziate soprattutto sulla costa, li perseguitava commettendo indicibili atrocità.
Un gruppo fu portato ad Aprica all’inizio del 1942: c’erano professionisti con le loro famiglie, un avvocato, due insegnanti, un dentista e due medici ma anche un calzolaio, un sarto un cuoco, il direttore di una fabbrica di birra e un ex direttore di banca. Gli storici hanno enunciato diverse teorie sul perché un paese come l’Italia che nel 1938 aveva emanato le leggi razziali che toglievano ogni diritto agli ebrei, ne accoglieva altri dalla vicina Jugoslavia dandogli anche un sussidio.
Una comunità ben integrata coi residenti
Sta di fatto che gli Zagabri – che appunto vennero chiamati così perché provenivano dalla Croazia – vivevano in pace e armonia con gli abitanti del posto come “confinati liberi”.
Non potevano mandare i figli nelle scuole ufficiali ma avevano i loro insegnanti e, anche se gli era impedito lavorare, qualcuno di loro continuava di nascosto a esercitare la propria professione fornendo servizi agli abitanti di Aprica e beneficiando anche del rispetto e della collaborazione delle autorità locali. In primis quella del comandante della caserma dei Carabinieri Bruno Pilat.
“Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 e a seguito dell’invasione delle truppe nazifasciste nel Nord Italia, la situazione per loro si fece difficile e gli Zagabri dovettero tentare la via della fuga in Svizzera -racconta a tvsvizzera.it la figlia di Bruno Pilat, Bianca, autrice del libro Un eroe a sua insaputa, una ricerca storica accurata che ricostruisce il salvataggio di queste 218 persone che suo padre mise in atto- E così mio padre, in collaborazione con due preti, Don Carozzi e Don Vitalini, predispose la fuga degli Zagabri attraverso la Val Poschiavo su per le cosiddette vie dei contrabbandieri”.
Seppur terra di rifugio per molti, la Svizzera non è stata sinonimo per tutti di accoglienza durante la Seconda guerra mondiale.
Sono infatti numerosi i profughi respinti alla frontiera. Un tristemente celebre esempio è quello della senatrice italiana Liliana Segre.
Negli anni 1990, la Commissione Bergier, creata per gettare nuova luce sulla storia della Svizzera durante la Seconda guerra, era giunta alla conclusione che tra il 1939 e il 1945 erano state respinte circa 24’500 persone, ebree e non ebree. La stessa Commissione Bergier aveva indicato che fino alla primavera del 1944 la maggior parte dei civili respinta era ebrea.
Questa cifra è oggi rimessa in discussione da diversi storici, che sulla base dell’analisi di nuovi documenti arrivano a numeri sensibilmente più bassi.
Studiando gli arrivi dalla Francia, da cui provenivano circa due terzi degli ebrei che hanno cercato rifugio in Svizzera durante la guerra, la storica Ruth Fivaz-Silbermann è giunta alla conclusione che ne sono stati respinti meno di 3’000. Per il Ticino, si parla invece di alcune centinaia di respingimenti.
La fuga verso la Svizzera
Il 10 settembre del 1943 dunque i profughi a piedi e in bus raggiunsero con il favore delle tenebre Villa di Tirano e Bianzone da dove presero la via delle montagne. “Passare il confine, calpestare il territorio svizzero non voleva dire essere in salvo. Gli Zagabri si avventuravano per la montagna senza la certezza di essere accettati ma non avevano scelta”, aggiunge Bianca Pilat.
Ne sa qualcosa Andrija Kornhauser che allora aveva tredici anni. Insieme ad un gruppo di altri 71 tra cui suo padre, suo madre e suo fratello maggiore, era salito fino nel bosco presso Franteleone nel tentativo di entrare in Svizzera con la sua famiglia. Gli intimarono di tornare indietro ma il gruppo non si mosse. “Il militare svizzero che era di guardia non voleva farci entrare. E così, dopo due lunghe notti all’addiaccio soffrendo fame e freddo, ci fu comunicato che potevamo entrare. Ricordo che i doganieri ci offrirono delle bevande calde e poi fummo portati in un centro di raccolta per alcune settimane”, spiega a tvsvizzera.it.
Anche Vera Neufeld era arrivata ad Aprica nel marzo del 1942 coi genitori e la sorella Lea. I suoi ricordi di quel periodo ad Aprica sono molto belli: libertà di movimento, giochi all’aria aperta, nuovi amichetti con cui passare le giornate. Poi, dopo l’8 settembre 1943 la necessità di fuggire in Svizzera. “Io avevo sette anni e non mi ricordo molto ma – ci racconta Vera – mio padre sì. Diceva che il momento del nostro arrivo in territorio svizzero era stato un sollievo che aveva provocato in tutti noi dei gran pianti anche perché la solidarietà delle guardie svizzere era stata grande. Uno di loro ci era venuto incontro offrendoci dell’uva e ci aveva pure aiutato a portare i bagagli verso valle”.
L’accoglienza e la solidarietà svizzera ai profughi
Ma la solidarietà svizzera è poi continuata nelle fasi successive dell’accoglienza dei profughi ebrei. “Dalla Val Poschiavo fui mandato dapprima in un centro di accoglienza a Gyrenbad e poi affidato a diverse famiglie del cantone Zurigo come gli Zambonin. Da Ernst e Sonja Jucker di Tann-Ruti, invece, sono stato un anno intero frequentando la ‘Sekundarschule’ prima di tornare, dopo la fine della guerra, a casa. Sono molto riconoscente a loro e a tutti gli Svizzeri per averci salvato la vita. Considero la Svizzera, dove sono tornato molte volte, come la mia seconda casa”, chiosa Andrija via telefono dagli Stati Uniti dove vive dagli anni ’70.
“Una volta portati nei centri di accoglienza siamo stati tutti separati. Io, dopo aver passato alcune settimane nei centri di Adliswil e poi di Gattikon, sono stata accolta dapprima da una famiglia svizzera di Zurigo. Poi mi hanno mandato ad Ebersol in un centro per bambini. E, dalla fine del 1944 fino al termine della guerra, sono stata ospitata presso la famiglia Wettstein a Winterthur. Sono stata da loro ogni anno per le vacanze estive anche dopo essere tornata in Croazia e siamo rimasti in contatto fino alla loro morte”, aggiunge Vera Neufeld da Sydney in Australia dove emigrò e dove tutt’ora vive.
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