Gratteri, “Non c’è limite al riciclaggio se non si riduce il contante”
L'abolizione del segreto bancario è stato un importante passo in avanti nella lotta contro le mafie, un segno dell'apertura e della volontà della politica svizzera di collaborare e capire. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ospite del Festival Endorfine che si è tenuto nel fine settimana al Palacongressi di Lugano, per il quale "a volte i gesti sono più importanti della sostanza".
Un’affermazione non del tutto in linea con precedenti prese di posizione del noto magistrato calabrese verso il sistema inquirente elvetico e che probabilmente testimonia la nuova sensibilità di Berna nei confronti del fenomeno mafioso, cui un tempo riteneva di essere forse estranea.
Per Nicola Gratteri, che da oltre 30 anni vive sotto scorta (proprio in questi giorni un pentito ha parlato di un progetto di attentato mafioso contro suo figlio), il problema è più vasto e coinvolge l’intera Europa. La Germania “è il secondo paese a più alta densità mafiosa nel continente” e queste organizzazioni “investono nelle zone ricche” per due motivi: non dare nell’occhio e approfittare delle migliori occasioni per conseguire grandi profitti.
Le infiltrazioni nell’economia
Non a caso gli stessi cartelli sudamericani che gestiscono insieme alle mafie l’80% del traffico di cocaina verso l’Europa, ha sottolineato, si fanno pagare nel vecchio continente poiché ritengono più conveniente investire qui i proventi delle loro attività illecite. Tutte queste organizzazioni si rivolgono a questi mercati “per riciclare e comprare tutto quello che è in vendita”, in particolare nel commercio, nella ristorazione e nell’edilizia.
Del resto, l’operazione di lavaggio dei proventi criminali avviene a più livelli: attraverso la fatturazione falsa da parte di insospettabili attività commerciali create o rilevate sul mercato o, in modo più sofisticato, nel mondo delle professioni e della finanza, i cui attori “sono pienamente consapevoli di commettere illeciti”.
Negli ultimi anni ci sono stati miglioramenti a livello normativo ma “in realtà non c’è nessun limite al riciclaggio, soprattutto – alludendo ad esempio a Germania e Svizzera – se non andiamo a limitare il contante”, ha osservato il procuratore. La verità è che “ammettere la presenza delle mafie sul proprio territorio scoraggia gli investitori” ma “sarà troppo tardi quando gli Stati europei di accorgeranno cosa sono veramente le mafie”, ha continuato Nicola Gratteri, secondo il quale “iniziamo a vivere in un sistema drogato in cui le regole del libero mercato sono più formali che sostanziali”.
E qui l’aneddotica desunta dalla sua corposa attività d’indagine è assai ricca: dalla scoperta di supermercati con parcheggi semivuoti e una quindicina di casse sempre chiuse, alle decine di locali sospetti, prima nell’hinterland milanese e poi anche in centro, o alla sua denuncia, in un convegno cui ha partecipato dodici anni fa a Reggio Emilia in cui riferiva, tra l’incredulità di tutti, della presenza in loco della ‘ndrangheta testimoniata dal sensibile aumento (oltre il 20% in breve tempo) dei depositi bancari e degli appartamenti sfitti. O il cameriere calabrese, emigrato da Toronto, che ha aperto un bar in un paesino periferico della Svizzera in cui ha poi scoperto che si effettuavano riti di affiliazione a una ‘ndrina.
Un problema europeo
E se nel Nord Italia le infiltrazioni delle cosche calabresi nel tessuto economico legale sono orami un dato acquisito, non esiste ancora la medesima consapevolezza nel resto dell’Europa, dove “è sempre un magistrato italiano che coinvolge gli inquirenti locali”. Al di là della volontà politica c’è poi la mancanza di specifici strumenti normativi per combattere efficacemente le organizzazioni criminali. Se non esiste il reato di mafia nell’ordinamento di un paese, lamenta Nicola Gratteri, non si ha la possibilità di fare le indagini attraverso le intercettazioni ambientali, che sono fondamentali in questo tipo di inchieste.
Per questi motivi il magistrato calabrese chiede all’Europa di adeguarsi al sistema penale italiano, anche se non confida troppo in questa ipotesi dal momento che negli altri paesi prevale la privacy, che costituisce un ostacolo alle indagini, come le microspie nella camera da letto. E proprio per questo motivo “i summit delle mafie all’estero avvengono sistematicamente in questi luoghi”.
Una guerra dura e senza confini, come indicano i numerosi latitanti che vivono tranquillamente e tra lussi di ogni tipo in un qualche paese occidentale, svolgendo i loro lucrosi affari come broker (“si comportano come grossisti: saturano il mercato dello stupefacente per poi stabilirne il prezzo”) e una volta catturati si rifiutano di essere estradati in Italia dove pene e regime carcerario sono ben più pesanti. Ed essendo la struttura base della ‘ndrangheta composta da due o tre famiglie patriarcali è molto più difficile, a differenza di Cosa Nostra, trovare indagati disposti a collaborare con la giustizia. “Aspettiamo il grande capo che si penta”, aggiunge Nicola Gratteri, “finora abbiamo solo personaggi di serie B o C”.
Infiltrazioni nella Svizzera italiana
Negli ultimi anni, è stato evocato durante l’incontro, anche nella Svizzera si è avvertita la presenza dei clan calabresi: a partire dall’arresto nel 2015 del killer Gennaro Pulice che a Lugano era divenuto operatore finanziario dopo aver corrotto un funzionario locale per l’ottenimento del permesso di soggiorno. O dell’insospettabile dipendente di un comune luganese di 60 anni che è stato arrestato lo scorso 15 di giugno, su ordine degli inquirenti italiani che lo ritengono affiliato alla cosca Anello, per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori. “Non è necessario essere ricchi ma essere organici e funzionali ai bisogni dell’organizzazione”, ha detto in proposito Nicola Gratteri.
L’importante in questa guerra è tenere alta la guardia, anche se “parlare di mafia stanca e c’è un decadimento culturale ed etico preoccupante”, come dimostrano “i funzionari disposti a vendersi”. Inoltre per la politica il problema non esiste se non c’è una forte pressione da parte dell’opinione pubblica e i media non ne riportano le posizioni. “Non cambierà nulla se le tivù non ne parlano e per la popolazione non è un problema”, conclude un po’ sconsolato il responsabile della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Catanzaro.
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