Il carteggio tra Primo Levi e il suo traduttore tedesco Heinz Riedt
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La corrispondenza tra i due uomini mostra gli orrori del Novecento e la “lingua che salva”.
La lingua tedesca, nel corso della sua storia, ha assorbito molti influssi provenienti da altri idiomi, in particolare dal francese nelle zone di confine di Alsazia e Lorena e nel periodo dell’esodo degli ugonotti. Ma l’influsso più evidente è quello esercitato dalle lingue dei paesi slavi, nelle zone di confine verso oriente. La parola Dolmetscher, ad esempio, è penetrata nel tedesco dall’ungherese tolmac, che a sua volta deriva dal turco dilmac ed è presente con lievi differenziazioni, ma col medesimo significato, in quasi tutte le lingue slave.
Dolmetscher significa letteralmente “traduttore”, “interprete”, con uno specifico riferimento all’immediatezza della lingua parlata. Ma nei lager nazisti la parola veniva utilizzata per designare il nerbo di bue, l’“interprete” che nella babele infernale si faceva capire da tutti. Primo Levi racconta di questa tragica oscillazione semantica in un capitolo di quello che, insieme a Se questo è un uomo, è con ogni evidenza il suo libro più drammatico e sofferto, I sommersi e i salvati, pubblicato un anno prima della morte e carico di oscuri presagi.
Dagli archivi della RSI, “I due mestieri di Primo Levi” (1985):
Il capitolo in questione si intitola Comunicare ed è tutto dedicato al codice linguistico utilizzato nei lager: “Ai giovani nazisti – scrive Levi – era stato martellato in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca. Perciò chi non capiva né parlava il tedesco era per definizione un barbaro; se si ostinava a cercare di esprimersi nella sua lingua, anzi, nella sua non-lingua, bisognava farlo tacere a botte e rimetterlo a posto, a tirare, portare e spingere, perché non era un essere umano”.
Come noto, Levi è scampato alla morte in lager per tre motivi. In primo luogo, perché era fortunatamente malato di scarlattina quando i tedeschi, nel gennaio 1945, all’avvicinarsi delle truppe russe, evacuarono il campo e abbandonarono gli ammalati al loro destino. I prigionieri “sani”, invece, vennero trasferiti a Buchenwald e Mauthausen e morirono quasi tutti. In secondo luogo, perché era laureato in chimica, aveva evitato i lavori più gravosi e venne prevalentemente impiegato nella “Buna”, la fabbrica di gomme sintetiche all’interno del lager. E infine, ma non da ultimo, perché a differenza di molti suoi compagni di sventura era arrivato nell’inferno di Auschwitz con una minima ma decisiva base di tedesco, che aveva appreso proprio studiando chimica negli anni del liceo e dell’università a Torino.
In quel periodo, infatti, il testo di riferimento per lo studio della chimica nei licei e nelle università era in tedesco e si intitolava Chimica Organica Pratica (Die Praxis des organischen Chemikers), di Ludwig Gattermann: un testo che lo stesso Levi, ad anni di distanza, ha poi parzialmente tradotto e proposto (come “atto di riconoscenza e di omaggio”) nell’antologia personale La ricerca delle radici, insieme ad altri testi fondamentali per la sua formazione come uomo e scrittore. Non a caso, perché il tedesco appreso su quel manuale di chimica gli ha fornito la possibilità di uscire vivo da Auschwitz. La lingua che uccide, la lingua dell’inferno che disumanizza sia i torturatori che i torturati, può anche essere la lingua che salva: “Fra l’uomo che si fa capire e l’uomo che non si fa capire, c’è una differenza abissale: uno si salva, l’altro non si salva”.
>>> Per approfondire: “La parola necessaria – Per non dimenticare Primo Levi”Collegamento esterno
Per uno strano paradosso, che a ben vedere non è tanto strano e in ultima analisi non è nemmeno un paradosso, Primo Levi si è salvato in lager utilizzando il medesimo codice linguistico dei carnefici: un tedesco grezzo, barbaro, primitivo, che nella sua povertà semantica e lessicale riproduceva le condizioni disumane del campo di sterminio e la regressione a una condizione animalesca, bestiale, con la vita ridotta ai suoi dati primari. Ha spiegato lo stesso Levi in una lunga e bellissima intervista concessa a Ferdinando Camon nei primi anni Ottanta: “Quel poco che sapevo di tedesco mi è stato prezioso. In lager mi sono imposto di succhiare il tedesco dall’aria intorno a me, tanto che il mio tedesco di reduce era il tedesco delle SS e della Wehrmacht. E non lo sapevo, dicevo cose che non dovevo dire: come uno che abbia imparato l’italiano in un bordello, pressappoco”.
Sempre nello stesso periodo, nel 1982, in occasione del suo secondo ritorno ad Auschwitz per un documentario della Rai (la prima volta fu nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa), Levi svolse ulteriori considerazioni sul tedesco del lager: “La condizione di animalità si rifletteva nel linguaggio. In tedesco ci sono due verbi per dire “mangiare”; uno è “essen”, ed è il mangiare degli uomini, e l’altro è “fressen”, che è il mangiare delle bestie. Si dice che un cavallo “frisst”, non “isst” ; un cavallo divora, insomma, o un gatto; e in lager, senza che nessuno avesse deciso di farlo, il verbo per “mangiare” era “fressen”, non “essen”, come se la percezione della regressione animalesca fosse diffusa in tutti”. E’ il medesimo idioma – fatto principalmente di sigle, abbreviazioni, mostruosità sintattiche, storture lessicali, forzature semantiche, prefissi utilizzati in maniera impropria e strumentale – che il filologo tedesco Viktor Klemperer, anch’egli miracolosamente scampato ai campi di sterminio, ha poi magistralmente studiato e descritto nel libro LTI – Lingua Tertii Imperii ovvero la lingua del Terzo Reich.
La dimensione infernale del tedesco dei lager, la Lingua Tertii Imperii, ha accompagnato Levi anche negli anni successivi, non solo nella drammaticità del ricordo ma anche nella concretezza del lavoro alla fabbrica chimica “Siva” di Settimo Torinese. Negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, in qualità di direttore tecnico della fabbrica e in virtù della sua rudimentale conoscenza del tedesco, Levi si trovò a viaggiare spesso per affari in Germania e in Austria. Ma il suo tedesco, l’idioma che gli aveva garantito la sopravvivenza ad Auschwitz, era ancora quello del lager, dell’inferno in terra.
Al termine di una riunione di lavoro, ad esempio, Levi prese congedo utilizzando l’espressione “jetzt hauen wir ab”. Voleva esprimere qualcosa del tipo «Bene, adesso abbiamo finito», ma il verbo “abhauen”, un tipico verbo da lager, si presta a una traduzione molto più colorita, per non dire apertamente volgare: «Spiegai ai miei interlocutori – racconta Levi nel già ricordato capitolo de I sommersi e i salvati – che avevo imparato il tedesco in un lager di nome Auschwitz; ne nacque un certo imbarazzo». La conoscenza col traduttore Heinz Riedt in occasione dell’edizione tedesca di Se questo è un uomo, uscita nel 1959, e il successivo carteggio con molti lettori germanofoni (in parte riprodotto nel capitolo Lettere di tedeschi de I sommersi e i salvati), spinsero infine Levi, ormai sessantenne, a «tornare a scuola» per imparare il “vero” tedesco (l’intera vicenda è raccontata in un capitolo de L’altrui mestiere).
Non la lingua dei lager, quindi, ma quella di Goethe, del romanticismo, di Thomas Mann e soprattutto di Franz Kafka e de Il processo, il «libro saturo d’infelicità e di poesia» che nel 1983 Levi tradusse splendidamente, uscendone «come da una malattia», per la collana “Scrittori tradotti da scrittori” dell’editore Einaudi. Nella breve postfazione, Levi ha riassunto il rapporto con la lingua tedesca, col capolavoro di Kafka (un libro che si inoltra in abissi che solo il tedesco può rendere, col suo vastissimo spettro semantico) e infine, con ogni probabilità, il senso più profondo della sua esperienza di uomo: «Dunque è così, è questo il destino umano, si può essere perseguitati e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai. E tuttavia, di questa colpa, si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Per ricostruire il rapporto tra Levi e la lingua tedesca mancava tuttavia un tassello, costituito dalla fitta corrispondenza con Heinz Riedt, un amico prima ancora che un traduttore. Il carteggio è stato pubblicato da Einaudi e si inserisce in un più ampio progetto che prevede la pubblicazione di altri carteggi di Primo Levi, sia in versione cartacea che digitale.
“Egregio Signor Riedt, è forse lei la persona che da anni speravo di incontrare», dice una lettera di Levi datata 22 agosto 1959, nel periodo della pubblicazione in lingua tedesca di Se questo è un uomo. Più che di una semplice formula di cortesia, si tratta dell’espressione di una vicina, anzi vicinissima lontananza, perché Heinz Riedt non era per così dire un traduttore qualsiasi. Nato a Berlino nel 1919 e quindi coetaneo di Levi, Riedt era cresciuto trilingue a Napoli e Palermo, dove il padre lavorava al consolato tedesco (oltre alla madrelingua tedesca, parlava correntemente italiano e francese), dopo il pensionamento del padre era tornato con la famiglia in Germania e allo scoppio della guerra era stato arruolato nella Wehrmacht, ma si era finto malato ed era miracolosamente riuscito a studiare italianistica a Padova, partecipando attivamente alla Resistenza veneta nella Brigata “Giustizia e libertà” col nome di battaglia “Marino”.
La sua vicenda, fatte salve tutte le ovvie differenze, è per molti versi speculare a quella di Levi, perché anche Riedt è stato salvato dalla conoscenza della lingua straniera (l’italiano, nel suo caso) che era necessario capire e parlare in frangenti particolarmente drammatici, quando era davvero questione di vita o di morte. Alla fine della guerra, si stabilì a Berlino Est perché sinceramente convinto che il socialismo reale avrebbe mutato in meglio l’animale-uomo, cominciò a tradurre e collaborò tra l’altro col Berliner Ensemble di Bertolt Brecht, ma dopo la costruzione del Muro scelse la via dell’esilio interno, trovò rifugio nella Germania Federale e si stabilì nel piccolo borgo di Ettal in Baviera.
Riedt abbandonò definitivamente Berlino il 25 agosto 1961 (il giorno prima, il Muro aveva fatto la prima vittima: il ventiquattrenne Günter Liftin, un apprendista sarto che stava tentando di fuggire all’Ovest attraverso il Porto di Humboldt) e raccontò subito le proprie impressioni all’amico italiano: “Non dimenticherò mai quel che ho visto: una disperazione agghiacciante, arrivata all’ultima fase della desolazione muta; in strada nessuno parla, nella metro affollata non si ode parola, neanche la madre parla con la figlia seduta accanto, tutti a testa bassa, muti dal terrore, una visione di condannati a morte senza alcuna speranza”.
Studioso di Goldoni, sul quale ha scritto una fondamentale monografia a corredo della traduzione delle opere complete in sei volumi, Riedt è stato quel che si suol definire un mediatore culturale, che ha svolto una funzione importantissima tra Italia e Germania in un periodo estremamente complicato. Il numero delle sue tradizioni è vastissimo: il già ricordato Goldoni, ma anche il Pinocchio di Collodi, molti testi di Pirandello nonché autori contemporanei come Fenoglio, Calvino, Gadda, D’Arrigo, Ledda, Landolfi e Oriana Fallaci, solo per citarne alcuni. Di Primo Levi ha poi tradotto anche le Storie naturali, uscite in edizione tedesca nel 1968 col titolo Das Mass der Schönheit (La misura della bellezza,dal titolo di una delle storie). E’ morto nell’amatissima Procida nel 1997, dieci anni dopo il suo amico e partner epistolare.
Il carteggio riguardamolto spesso le caratteristiche sintattiche, lessicali e grammaticali della lingua tedesca. Quando Riedt gli sottopone quesiti relativi alla resa in tedesco di espressioni italiane (il che accade praticamente in ogni lettera), Levi risponde rievocando il gergo del Lager: la ricerca del flaubertiano mot juste, la “parola esatta” (che deve essere tanto più “esatta” nel circoscrivere l’orrore e il grado zero dell’umano), costringe infatti Levi a rivivere nella memoria la sua drammatica esperienza. Sono pagine di straordinaria intensità, non lontane da Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Ma le lettere non affrontano soltanto le questioni tecniche della traduzione, perché si configurano nell’insieme come un dialogo fra amici che si scambiano opinioni sulla letteratura e soprattutto sulla politica.
È un tema presente un po’ in tutto il carteggio, ma trova la massima espressione nel passo di una lettera di Levi del 16 agosto 1961, poco dopo il primo incontro a Ettal, quando Riedt gli comunica la decisione di non restare a Berlino Est e di optare per l’esilio interno. Nella risposta di Levi c’è un passo poi cancellato (nel testo è riprodotto in corsivo), perché forse gli appariva troppo pessimistico. Sei decenni dopo, a dimostrazione che tutto cambia ma nulla cambia nel cuore di tenebra dell’animale-uomo, fotografa invece con assoluta precisione la situazione nel vecchio continente e la delusione di chiunque, malgrado tutto e contro ogni evidenza, continua a considerarsi “europeo”.
Non possiamo non dirci europei, come Levi e Riedt, ma esattamente come loro – anche se ormai del tutto privi di una lingua che “salva”, simbolicamente e concretamente – non possiamo non esprimere tutto il nostro sconcerto e disincanto. Ha scritto infatti Levi: “Mi domando: è possibile, è decente, che questa Europa, che sento come la mia vera patria, e come la patria dell’unica vera civiltà universale, sia in pari tempo un permanente focolaio di incomprensioni, di tradimenti e di tirannidi, la fabbrica delle idee e della guerra?”.
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