Il caso ticinese è stato al centro del convegno “I frontalieri in Europa” tenutosi oggi all’Università di Bergamo nel quale ricercatori e sindacalisti si sono confrontati su un fenomeno che negli ultimi anni ha monopolizzato il dibattito politico non solo locale.
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Cresciuto in Ticino, ho maturato esperienze in varie testate e in diversi media, dalla carta stampata e all’informazione online e alla radio. Iniziali: spal
L’incremento del numero di lavoratori confinanti nell’ultimo decennio è andato di pari passo con il peggioramento delle condizioni lavorative che, ha osservato Enrico Borelli (sindacato Unia), ha comportato l’accentuazione dei conflitti in numerosi settori produttivi (in particolare nell’edilizia), nei quali il contributo di questa categoria di lavoratori nelle mobilitazioni è risultato determinante. Ma a preoccupare, ha sottolineato sempre il rappresentante sindacale ticinese, “è l’esplosione del fenomeno nel terziario negli ultimi 8 anni”, circostanza questa che ha accentuato la concorrenza con i salariati residenti e, nei casi più gravi, ha incrementato l’effetto sostituzione della manodopera locale.
Una situazione che, come riporta la cronaca di queste settimane, sta avendo addirittura risvolti penali con la Procura ticinese impegnata in indagini che spaziano fino alla tratta di esseri umani. Per tutta questa serie di motivi le stesse organizzazioni dei lavoratori vengono messe sotto pressione e sono costrette a rivedere il loro ruolo in un contesto in continua evoluzione e nel quale è cambiata anche la percezione tra la popolazione e sui media, come ha osservato Nelly Valsangiacomo (Università di Losanna). Se fino agli anni ’90 sulle radiotivù, specchio dell’opinione pubblica, il tema riguardante il frontalierato era trattato all’interno di trasmissioni di approfondimento nelle quali “vengono evocati aspetti culturali per mettere in risalto la comune appartenenza” della popolazione lombarda, piemontese e ticinese, successivamente la figura del frontaliere viene assimilata a quella del migrante, entrambe accomunate nella lista delle potenziali minacce. “I formati radiotelevisivi in cui viene trattata la tematica cambiano”, sottolinea sempre Nelly Valsangiacomo: “Prevalgono gli aspetti emozionali e i dibattiti, che vedono anche la partecipazione del pubblico, si sostituiscono alle riflessioni e all’approfondimento”.
Ma la questione ha importanti ripercussioni anche nel linguaggio politico, come ha sostenuto Francesco Garufo (Università di Neuchâtel) che ha tratteggiato l’evoluzione dei messaggi veicolati dai manifesti elettorali. Da Balairatt, gli inquietanti “roditori” italiani e rumeni che minacciano la tranquillità dei ticinesi propagandati nel 2010 dall’Unione democratica di centro ticinese al nativo pellerossa confinato nelle riserve, per non essersi opposto all’invasione degli stranieri rappresentato nei manifesti dalla Lega dei ticinesi. Un’iconografia che risponde al preciso fine politico di creare un senso di appartenenza al territorio minacciato dallo straniero, sia esso indistintamente frontaliere o migrante.
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