Il futuro del telelavoro, tra rischio di precariato e sete d’indipendenza
Quanto l'home working si sia radicato nella società e se avrà conseguenze negative, sarà il tempo a dircelo. Qualche ipotesi, però, possiamo già avanzarla.
Home office, home working, smart working o semplicemente telelavoro. Termini che ormai fanno parte dell’uso comune e di cui, nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo sentito parlare in lungo e in largo. Dalla metà di gennaio fino al 31 maggio del 2021, poi, il Governo ha addirittura imposto, laddove possibile, di lavorare da casa. Una pratica che, nella sociologia del lavoro, viene studiata da decenni, come ci conferma Nicolas Pons-Vignon, professore in Trasformazioni del lavoro e innovazione sociale per il Centro competenze lavoro, welfare e società al Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). Ma è solo con lo scoppio della pandemia che ha effettivamente preso piede dalle nostre parti.
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Lavorare da casa: non tutti possono farlo
Ora che questa pratica sembra non essere più una necessità, il telelavoro sopravvivrà all’emergenza sanitaria? Secondo uno studio svolto da Gartner, azienda attiva a livello internazionale in consulenza strategica e ricerca, il 90% dei responsabili delle risorse umane delle imprese interpellate nel mondo continuerà a permettere, almeno a livello parziale, il lavoro da remoto anche dopo la fine dell’emergenza da coronavirus. E il 48% dei dipendenti lavorerà effettivamente in remoto almeno una parte del tempo, con picchi che superano il 75 e l’80% in settori come quelli del servizio clienti o del supporto tecnico/informatico.
I settori maggiormente interessati
In base ai dati forniti dall’Ufficio federale di Statistica (Ust)Collegamento esterno, le persone occupate in Svizzera che lavorano dal domicilio sono passate dal 24,6% del 2019 al 34,1% nel 2020. L’home working è stato praticato in maniera massiccia nel settore dell’informazione e della comunicazione dove nel 2019 veniva attuato (almeno saltuariamente) dal 58,4% dei dipendenti, mentre nel 2020 la percentuale è salita al 76,3%. Ma il fenomeno è noto anche a chi ha a che fare con attività finanziarie e assicurative (il saldo ha subito un’evoluzione dal 34 al 61,4%), con professioni scientifiche e tecniche (dal 39,3% al 54,7%) o chi lavora nella pubblica amministrazione (dal 22,4% al 42%). Per motivi evidenti, le percentuali sono invece rimaste molto basse nei settori delle costruzioni o in quelli della sanità, della ristorazione e dell’alberghiero.
Il pericolo precarietà
Con la pandemia, per molti professionisti, il telelavoro si è rivelata l’unica strada percorribile. Per capire se questa pratica verrà mantenuta anche in futuro e come evolverà, bisogna però valutare molti aspetti che dipendono sia dalle aziende, sia dai lavoratori, sia dalle circostanze. “Quando i datori di lavoro parlano di ‘flessibilità’ offerta e richiesta al dipendente, spesso questa implica anche una maggiore vulnerabilità del dipendente stesso”, ci spiega il ricercatore della SUPSI Nicolas Pons-Vignon. “Bisognerebbe quindi distinguere tra la flessibilità nell’organizzazione del lavoro (per esempio il telelavoro) e quella che riguarda le condizioni contrattuali. Quando svolgi un lavoro in remoto, puoi certamente trarne molti benefici. Ma questi benefici possono non risultare reali se non hai autonomia, certezza dell’impiego o le condizioni necessarie per svolgerlo”.
La diffusione del telelavoro può infatti portare anche a un incremento della precarietà, spiega il professore. “Un datore di lavoro può dirsi: ‘se un lavoro può essere svolto da casa, non ho bisogno di impiegare un dipendente versandogli contributi e assicurazioni, posso farlo fare ad un esterno pagandolo a ore’. Quest’esternalizzazione del lavoro può risultare accattivante per chi sogna di mettersi in proprio, ma rende i lavoratori più fragili”, asserisce ancora Pons-Vignon, soprattutto quelli meno previdenti.
Questo pericolo si acutizza nei Paesi che hanno una disoccupazione alta o una situazione sociale già delicata. La qualità del telelavoro dipende quindi molto dalle condizioni contrattuali e il futuro che gli spetta sarà probabilmente ibrido ed eterogeneo. Il ricercatore SUPSI cita tre scenari possibili a tal proposito.
- Tutti di nuovo al lavoro: possibilità dovuta, tra le altre cose, alla paura del datore di lavoro che non si “produca” a sufficienza stando a casa, o alla possibilità di imparare grazie al contatto con gli altri.
- Dove è possibile, restano tutti in remoto: opzione che, se si riesce a farla funzionare da entrambe le parti, può portare un beneficio molto grande a entrambi, soprattutto in città come Zurigo o Londra dove le aziende necessitano di grandi uffici su cui risparmierebbero molto.
- Il sistema ibrido: alternare la presenza sul luogo di lavoro con l’home working. Affinché funzioni va però capito per cosa è importante l’una – lo scambio informale tra colleghi, il confronto professionale, lo sviluppo della creatività, eccetera – e in quali situazioni è meglio l’altro, come ad esempio le riunioni che spesso, se fatte in presenza, durano troppo e non sono mirate, oppure quando c’è necessità di autonomia e indipendenza per il dipendente.
Se, da una parte, molti Paesi si devono ancora organizzare a livello sociale; altri si sono mossi in tempo in modo da attirare sul proprio territorio chi, pur lavorando per ditte di un altro Stato, può risiedere e pagare le tasse nel loro.
È il caso, per esempio, dell’Italia che, dal 2020, ha incrementato la percentuale di reddito esentasse (dal 50 al 70%) dei cosiddetti “remote workers” che si trasferiscono, almeno fiscalmente, nello Stivale. Il vantaggio, dalla durata di cinque anni, può addirittura arrivare al 90% se si sceglie di stabilizzarsi in una regione del sud del Paese o nelle isole.
Non si distanzia molto nemmeno la Grecia che ha annunciato il dimezzamento delle imposte per coloro che vi si trasferiranno nel corso del 2021. L’intento principale, in questo caso, è orientato soprattutto al “riportare a casa” parte degli 800’000 ellenici che hanno lasciato il Paese durante il decennio di forte crisi (2009-2019). Onde evitare abusi e ritorni che seguano partenze fasulle, la condizione per approfittare di questo “sconto” è però limitato a chi non è stato fiscalmente residente in Grecia nei sette mesi precedenti.
Una mossa un po’ diversa, ma che in fondo va nella stessa direzione, ossia di attirare residenti, è quella decisa dalla Spagna. Il Paese iberico ha infatti introdotto la “non-lucrative residence visa”: un visto per i cittadini extra UE affinché possano risiedere in Spagna anche senza esercitare alcuna attività remunerata.
Uscendo dai confini europei e optando per lidi ancor più caldi di quelli mediterranei, il Costa Rica offre facilmente il proprio visto a coloro che dimostrano entrate i almeno 2’500 dollari al mese, a patto che non trovi lavoro nello Stato centramericano. Antigua e Barbuda, così come le Barbados, concedono permessi di soggiorno a chi ha un reddito di almeno 50’000 dollari annui (circa 46’000 franchi).
“Il problema è che quello del lavoro non è un mondo democratico”, conclude Pons-Vignon e “la maggior parte delle volte in cui subisce cambiamenti importanti, sono i datori di lavoro a deciderli. E anche a incidere su eventuali modifiche nella legislazione”. A doversi incastrare, come dicevamo all’inizio, sono cioè tanti aspetti: molti di questi sono legati al tipo di lavoro e al tipo di lavoratore ma anche al dialogo che si instaura tra colleghi e con i responsabili e a quanto i datori siano realmente orientati all’ascolto delle esigenze del lavoro e dei lavoratori.
Le previsioni e gli studi vedono quindi un avvenire possibile per questo tipo di lavoro “flessibile”. Una certa rivoluzione nel modo in cui viene concepito l’impiego da tutti i suoi protagonisti è già in atto. Per trarre conclusioni, però, ci vorrà ancora del tempo.
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