Italiani e sindacati, una scintilla necessaria
Gli italiani che arrivarono in Svizzera con le migrazioni degli anni Sessanta cominciarono a partecipare ai sindacati svizzeri soltanto a metà degli anni Settanta, portando in un'organizzazione sonnecchiante rivendicazioni e strategie di lotta dall’Italia che rinnovarono e rafforzarono le capacità contrattuali di tutti i lavoratori. Incontro con l'ex sindacalista di Unia Gugliemo Grossi.
La Svizzera cercava braccia e arrivarono uomini, come disse lo scrittore Max Frisch. Alloggiati nelle baracche senza sicurezze sociali, stagionali, con paghe inferiori a quelle degli svizzeri, gli immigrati italiani negli anni Sessanta erano una forza lavoro ma anche un potenziale esplosivo pronto a reclamare diritti. Uniti tra di loro ma distaccati dalla popolazione locale, la più parte di loro non era iscritta a un sindacato svizzero, considerate organizzazioni conservatrici. Dal 1937 infatti regnava la cosiddetta “pace del lavoro“, un’intesa tra datori di lavoro e salariati che punta alla risoluzione dei conflitti mediante negoziati e la rinuncia agli scioperi o alle ritorsioni da parte del padronato.
Questa strategia era radicalmente diversa da quella dei sindacati italiani, che nel dopoguerra non soltanto lottavano in piazza per i diritti dei lavoratori, ma si schieravano anche chiaramente sui grandi temi politici, ad esempio lo sciopero generale proclamato dalla CGIL nel 1960 contro il Governo Tambroni, appoggiato dai neofascisti dell’MSI.
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Gli italiani in Svizzera cercavano quindi piuttosto un sostegno nelle associazioni italiane come le Colonie Libere, che in collaborazione con la Cgil offrivano corsi professionali e di alfabetizzazione in Svizzera e da cui nacque l’Ecap.
In realtà la mansuetudine dei sindacati svizzeri era dovuta soprattutto al benessere economico del dopoguerra, che permetteva alle imprese di accettare le richieste dei lavoratori mediandole caso per caso. Le concessioni non venivano però garantite per tutti, e quando nella metà degli anni Settanta l’economia svizzera rallentò, i sindacati svizzeri cominciarono a cambiare strategia anche con l’apporto dei lavoratori immigrati, in maggioranza italiani.
Un osservatore attento
Guglielmo Grossi ha vissuto in prima persona questo cambiamento e ne è stato anche propulsore. Arrivato a 16 anni nel 1961 come operaio, in seguito diventò direttore dell’Ecap e presidente delle Colonie Libere dove si impegnò per l’integrazione dei lavoratori nei sindacati svizzeri, tanto che negli anni Novanta andò a lavorare nel sindacato Industria e Legno – confluito poi in Unia – fino al suo pensionamento nel 2008.
Grossi entrando in età avanzata nel sindacato, non è stato un dirigente nazionale, ma ha partecipato ad alcune trattative e a tante lotte, e soprattutto è stato un osservatore attento. “Penso che il contributo degli immigrati al sindacato sia stato molto importante, anche se per certi aspetti con qualche superficialità, gli italiani hanno portato l’idea del sindacato come forza che unisce i lavoratori e favorisce il miglioramento di tutta la società perché riequilibra la distribuzione dei beni prodotti. Ecco l’essenza”.
Nel suo bagaglio culturale Grossi aveva portato con sé dalla Romagna le discussioni politiche accese nei bar, dove i conflitti ideologici dopo la guerra erano ancora forti e tangibili e a 15 anni aveva già deciso di “stare sempre dalla parte dei più deboli contro gli arroganti”. In Svizzera si avvicinò quasi subito alle Colonie Libere, nonostante in quegli anni fossero considerate organizzazioni sovversive.
Gli anni Sessanta erano un periodo di forte immigrazione e questo non facilitava l’integrazione. Gli italiani restavano per lo più tra di loro. Era una Svizzera irriconoscibile oggi, racconta Grossi, la popolazione locale stava in casa o usciva solo per andare a lavorare, e quindi guardava di sottecchi questi italiani giovani, liberi e chiassosi.
La comunicazione con la gente del posto era ridotta ai minimi termini tranne che sul lavoro. “Lì si doveva capire quello che gli altri volevano”.
Il vero impegno politico di Grossi cominciò dopo l’incontro con Leonardo Zanier, allora presidente delle Colonie Libere, che un giorno si fermò nel bar sotto il suo ufficio e lo invitò a partecipare ad un corso per attivisti nel quale sarebbe stata discussa la discriminazione dei figli degli immigrati nelle scuole. Era il 1972 e da allora non smise più di lottare per i diritti dei lavoratori immigrati.
Il primo passo fu la collaborazione con l’Ecap e l’organizzazione di corsi per analfabeti a Baden. Due anni dopo gli fu affidata la direzione dell’Ecap di Zurigo. Gli emigrati italiani degli anni Settanta, ricorda Grossi, provenivano dalle aree rurali più depresse d’Italia e il tasso di analfabetismo era alto. L’istruzione era la chiave per migliorarne le condizioni di vita. Erano anni difficili per l’Ecap che non godeva ancora dei riconoscimenti e quindi dei finanziamenti su cui può contare oggi.
Dopo sette anni, nel 1981 Grossi fu chiamato a diventare presidente della Federazione delle Colonie Libere. “Organizzavamo i lavoratori – racconta – perciò dovevamo collaborare con i sindacati locali”. Per Grossi era quindi chiaro che i lavoratori italiani non dovevano rappresentare una forza a sé stante, ma dovevano militare nel sindacato svizzero, rafforzando la capacità contrattuale di tutti i lavoratori. Questo non era scontato all’epoca poiché all’interno delle Colonie Libere c’erano correnti che volevano creare un sindacato degli immigrati. “Per me era un controsenso perché il sindacato è lì dove lavori, e più si è, più si è forti”.
Convinto della necessità di una collaborazione, la prima azione di rilievo che organizzò nella sua carica di presidente fu un incontro conciliatorio tra i dirigenti delle Colonie Libere e l’Unione dei Sindacati Svizzeri. Li riuscì a convincere entrambi e ne scaturì una collaborazione che portò migliaia di italiani a militare nel sindacato. Nel sindacato, quello Edilizia e legno, Grossi entrò nel 1993. Due anni dopo, fu scelto per un posto di segretario a Berna.
La lotta per il salario minimo
“Le vere prime conquiste il sindacato le ottenne quando furono stipulate condizioni minime obbligatorie di lavoro”. Secondo Grossi, questa fu la prima grande risposta dei sindacati svizzeri per migliorare la situazione degli immigrati. Il primo settore fu l’edilizia negli anni Ottanta. “Nella metallurgia questo avvenne molto più tardi; infatti quando nel 2004 ci fu la fusione dei due sindacati c’erano ancora molti contratti collettivi senza salario minimo”.
I salari minimi sono stati secondo Grossi la più importante chiave di ripartizione della ricchezza nel dopoguerra perché “se tu dai un diritto generale che da una dignità ai migranti al pari degli svizzeri, permetti al lavoratore di costruire. Anche i ricchi non stanno bene se i lavoratori non hanno il minimo, perché se le fondamenta non tengono il palazzo cade”.
“Anche i ricchi non stanno bene se i lavoratori non hanno il minimo, perché se le fondamenta non tengono il palazzo cade”.
Guglielmo Grossi
Gli anni Ottanta, Novanta e duemila sono stati quindi anche per i sindacati svizzeri anni di lotta in piazza e scioperi. Grossi ricorda ad esempio l’occupazione di un cementificio, azione per la quale fu condannato assieme ad altri 120 militanti. Poi nel 2002 ci fu un grande sciopero per il pensionamento anticipato, coronato da successo poiché si riuscì a convincere il padronato a sostenere questa riforma.
Nelle valigie la combattività
Secondo Grossi l’attitudine combattiva che hanno portato i lavoratori nelle loro valigie dall’Italia ha dato coraggio ai loro omologhi svizzeri, che vivevano in un clima remissivo e avevano come modello esperienze sindacali precedenti alla Seconda guerra mondiale. “La pace del lavoro per i lavoratori non è la pace”, sottolinea Grossi. “Penso che il contributo dei migranti al sindacato sia stato molto importante, anche se per certi aspetti con qualche superficialità hanno portato l’idea del sindacato come forza che unisce i lavoratori e favorisce il miglioramento in tutta la società perché riequilibra la distribuzione dei beni prodotti. Ecco l’essenza”.
La militanza nel sindacato svizzero ha aiutato anche gli italiani ad integrarsi. Oggi, molti dei loro figli lavorano e lottano nei sindacati. E non sono soltanto italiani. Anche immigrati da altri paesi si sono uniti nei sindacati e oggi questi rispecchiano la multiculturalità della società svizzera. “Il futuro delle organizzazioni sindacali sta in questa multietnicità”, conclude Grossi.
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