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La lotta contro la falsa cucina italiana

spaghetti in cottura
Lottare contro l'Italian Sounding: un progetto ambizioso del ministro italiano dell'agricoltura Francesco Lollobrigida. © Keystone / Gaetan Bally

Mentre la cucina italiana è ufficialmente candidata a patrimonio mondiale immateriale dell'UNESCO, il ministro dell'agricoltura italiano Lollobrigida vuole portare avanti una battaglia contro l'Italian sounding: ne abbiamo parlato con Paolo Petroni presidente dell'Accademia Italiana della cucina e con lo chef pluristellato Paolo Rota.

Conoscete la Zottarella? No? Eppure esiste: si tratta di una “mozzarella” fabbricata in Germania. Un’imitazione del più classico dei prodotti italiani come ve ne sono molti altri al mondo. Pensiamo, per esempio, al reggianito (il cugino sfortunato e non riconosciuto del Parmigiano Reggiano) o al Semisecco (che delizia gli aperitivi, sempre in Germania), al salame Milano (che di milanese non ha nulla), ai vari sughi pronti (vasetti di Cheese Ragù o “Carbonara” con panna, funghi e prosciutto) o alla famigerata pizza Hawaii (l’ananas solo per dessert, grazie).

Per lottare contro queste… specialità esotiche… il ministro italiano dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida vuole creare una serie di regole e ha fatto della lotta all’Italian sounding nella ristorazione all’estero uno dei suoi cavalli di battaglia. L’Italian sounding è l’uso di termini, immagini o riferimenti geografici che traggono in inganno rifacendosi all’italianità, ma che in realtà di tricolore hanno ben poco.

“Proteggere la cucina italiana non è un lavoro per ambasciate e consolati”

Paolo Petroni, presidente dell’Accademia Italiana della cucina

Un’idea lodevole, secondo molti (anche perché un progetto per proteggere il Made in Italy lo aveva portato avanti anche il predecessore di Lollobrigida), ma di difficile applicazione, come ci dice anche il presidente dell’Accademia italiana della cucina Paolo Petroni. Imporre delle leggi italiane all’estero non è fattibile, dice, e controllare tutti i prodotti e ristoranti è impossibile: “Non è un lavoro per ambasciate e consolati”. L’Accademia, dal canto suo, fa il possibile: “L’unica maniera per diffondere (e difendere) l’autentica cucina italiana è essere presenti sul territorio, verificando di persona cosa succede”.

Fondata il 29 luglio 1953 a Milano da Orio Vergani, Dino Buzzati, Luigi Bertett, Marino Parenti ed altri, l’Accademia italiana della cucina Collegamento esternoè un’associazione culturale il cui scopo è quello di “salvaguardare, insieme alle tradizioni della cucina italiana, la cultura della civiltà della tavola, espressione viva e attiva dell’intero Paese” (Orio Vergani, giornalista). Oggi è composta da 8’000 membri presenti in 50 Paesi del mondo. “Non facciamo recensioni negative”, spiega il direttore Paolo Petroni, “ma sul nostro sito si possono trovare gli indirizzi che hanno dimostrato di rispettare i prodotti e i fondamentali della cucina italiana. A questi conferiamo uno o più tempietti, che usiamo come sistema di punteggio”.

Più ottimista, invece, lo chef pluristellato Paolo Rota: “Trovo che sia un’iniziativa lodevole se fatta nel modo giusto. Mi sembra giusto proteggere il Made in Italy: si tutelano sia il patrimonio alimentare e culinario, ma anche il lavoro di noi professionisti”. Per quanto riguarda la fattibilità, l’head chef dei ristoranti Da Vittorio (presenti a Brusaporto, in provincia di Bergamo, a S. Moritz, a Shanghai e a Saigon) è convinto che, se ognuno fa la sua parte, è possibile proteggere l’italianità anche all’estero. Un disciplinare di 10-15 punti stilati dal Governo che i professionisti si impegnerebbero a rispettare sarebbe già un buon punto di partenza, afferma.

Poi anche gli chef devono fare la loro parte: “Per fare cucina italiana servono prodotti italiani: salumi, pesci, latticini, pasta. Le componenti base della cucina mediterranea, insomma”. E un cuoco si deve autodisciplinare: prima di offrire in carta dei piatti tipici, bisogna informarsi bene sulla possibilità di rifornirsi di materie prime genuine. “E oggi è molto più facile: molti fornitori sono ormai organizzati per inviare i loro prodotti – anche quelli più freschi – all’estero. Tutto questo, certo, ha un costo. Ma, come dico sempre, la qualità non ha prezzo”. 

Una cucina strutturata e autentica

misurazione con un calibro del logo del prosciutto di parma
Non basta un nome italiano per la vera cucina italiana: servono anche i prodotti autentici. Keystone / Marco Vasini

Ma come si fa poi a controllare che chi si spaccia per ristorante italiano, lo sia davvero, usando i prodotti giusti? Per ora è compito dell’Accademia, i cui collaboratori e collaboratrici si recano negli stabilimenti in questione e controllano se vi sia o meno il rispetto di alcuni punti fondamentali: “La cucina italiana si riconosce dalla struttura del menu – che dev’essere suddiviso in antipasti, primi, secondi e contorni – e dalla presenza della pasta”, spiega Petroni. Non basta, però. In cucina va usato il maggior numero possibile di prodotti autentici (DOC, DOP, DOCGCollegamento esterno). Un aiuto in questo senso viene anche dai vari consorzi, che inviano all’estero i loro prodotti per farli conoscere: “In passato venivano inviati quelli di minor qualità perché si pensava ‘Tanto sono all’estero, non se ne renderanno conto’. Oggi invece si fa il contrario, e viene fornito il meglio”. E funziona: come ci racconta Petroni, sono sempre di più i ristoranti che non si accontentano di comprare una pasta qualsiasi (lo stesso discorso vale per salumi, farine, latticini, olii, ecc.), ma scelgono fornitori che rispondano ad alti standard di qualità. Ci sono voluti anni e si continua a migliorare, insomma.

Oltre ai prodotti e all’offerta, è migliorata però anche la reputazione della cucina Made in Italy: “Anni fa – dice Petroni– quella italiana era considerata come una cucina povera ed era poco apprezzata. Oggi è stata designata da più parti come la migliore al mondo. Ha surclassato quella francese, tradizionalmente ritenuta come la cucina per eccellenza”.

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I ristoranti italiani, aggiunge Paolo Rota, hanno subìto le conseguenze del loro successo: “La nostra è considerata da più parti la migliore cucina del mondo e quello che ha successo viene imitato, con risultati più o meno soddisfacenti”. Un “abuso” dell’italianità che lo chef globe trotter ha notato sia da professionista che da turista. Un’esperienza spiacevole in un “finto” ristorante italiano può, insomma, avere un impatto negativo sull’idea che qualcuno si fa di questa cucina.

pizza estratta dal forno a legna
Pizza con “pepperoni”, un salame che di italiano (seppur grammaticalmente sbagliato) ha solo il nome. Keystone / Eric Risberg

Una cosa, comunque, è certa: la Svizzera, grazie alla sua vicinanza geografica con l’Italia (e al suo passato migratorio) è sicuramente messa meglio di altri Paesi. “I problemi grossi sono in America, Cina, Giappone, per citarne solo alcuni”, dice Paolo Petroni. Comprensibile per quanto riguarda i Paesi asiatici, ma gli Stati Uniti? In realtà la cucina italiana nella terra dello zio Sam ha subìto l’influenza locale: molti piatti sono stati adattati ai gusti americani. È così che nasce la salsa Alfredo modificata (oltre agli originali burro e parmigiano, gli americani aggiungono erbe “italiane”, panna, aglio e – spesso – pollo), la “chicken parmesan” (una milanese a mo’ di pizza Margherita) o ancora le pizze letteralmente sepolte sotto fette di “pepperoni” (un salame che con il peperone ha in comune solo il nome).

La candidatura all’UNESCO? Cosa buona e giusta  

La candidatura della cucina italiana a patrimonio mondiale immateriale dell’umanità dell’UNESCO Collegamento esternotrova comunque d’accordo entrambi gli intervistati (ma sicuramente non sono gli unici): si tratta di una cucina che “merita il giusto riconoscimento grazie alla sua peculiarità e alla sua importanza sia dal punto di vista economico che da quello agricolo”, secondo il presidente dell’Accademia. Un introito aggiuntivo per il turismo che è stato calcolato “a 30 miliardi di euro. I turisti verranno in Italia non solo per ammirare l’arte, mondialmente riconosciuta, ma anche per provare una cucina così rinomata”. Concretamente, però, non aiuterà, secondo lui, a proteggere nomenclature e marchi.

Una candidatura di questa portata, secondo Paolo Rota è sicuramente importante: diventerà “una ragione in più per fare le cose in modo serio, professionale e con criterio. Un patrimonio che, se riconosciuto, sarà fondamentale tutelare”. “Io, nel mio piccolo, cerco di farlo al meglio. Ci tengo a promuovere i prodotti italiani e la cucina autentica, ovunque mi trovi nel mondo. Molti chef si spacciano per italiani, ma poi non sono in grado di proporre piatti autentici. È per salvaguardare quelli come noi che sia la proposta di Lollobrigida che la candidatura all’UNESCO sono utili”.

Cosa succederà, non si sa: la proposta del ministro dell’agricoltura viene discussa da tempo e non sembra ancora prospettarsi una risoluzione rapida. Per quanto riguarda la decisione dell’UNESCO, questa arriverà al più tardi a dicembre 2025. Le prospettive dovrebbero comunque essere buone: l’organo delle Nazioni Unite, ricordiamo, ha già riconosciuto l’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano come parte del patrimonio culturale dell’umanità. 

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