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La poltrona di Johnson è già molto ambita

Una corsa a destra, affollata di comparse o di aspiranti leader tutti da consolidare. È lo scenario ormai acquisito nella sfida per la successione a Boris Johnson come leader Tory e futuro primo ministro britannico che entra nel vivo domani.

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In queste ore è stato definito un calendario accelerato delle votazioni da parte del Comitato 1992, l’organismo interno al gruppo parlamentare di maggioranza incaricato di gestire regole e tempi dello scrutinio.

La corsa vede in campo fino a 12 fra giocatori e giocatrici già impegnati a sferrarsi i primi colpi bassi, oltre che a proporre slogan più radicali e identitari di quelli sbandierati finora dallo stesso Johnson un po’ su tutto: dalle mirabolanti promesse di tagli di tasse in stile Thatcher alla Brexit senza se e senza ma, dalla guerra in Ucraina alla crociata anti-progressista e anti-politicamente corretta contro la cancel culture.

L’elemento di novità, simbolico e non solo, è rappresentato da una diversità etnica, di genere e culturale inedita in casa Tory, ma a livelli record anche se paragonata ai precedenti del Labour o di chicchessia. L’ultima discesa in campo attesa è quella di Priti Patel, controversa titolare dell’Interno in carica di radici familiari indiane, preannunciata con tanto di endorsement da uno dei suoi vice, Kevin Foster, a margine dell’inaugurazione del rinato consolato italiano di Manchester.

Con lei, per paradosso ministra anti-immigrazione, ‘gli indiani’ in lizza diventano tre (gli altri sono il giovane ex cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, leggermente favorito sul resto del lotto nei pronostici dei bookmaker, e l’attorney general Suella Braverman). Mentre i non anglosassoni di stirpe salgono a sette su 12, contando anche l’ex ministro Sajid Javid e il deputato Rehman Chishti (entrambi di sangue pachistano), Nadhim Zahawi (rifugiato curdo iracheno nativo di Baghdad succeduto a Sunak come cancelliere) e l’ex viceministra Kemi Badenoch, figli di genitori nigeriani. Un elenco cosmopolita come non mai che si completa, fra i profili più tradizionali, con due donne (Liz Truss e Penny Mordaunt) e tre uomini (Jeremy Hunt, Grant Shapps, Tom Tugendhat).

Ciò che non cambia è tuttavia la ferocia dello scontro. Alimentata da scandali veri e presunti, da dossier ad orologeria, dall’arma dei sospetti incrociati: con il front runner Sunnak sotto tiro non solo per il coinvolgimento nel Partygate di Johnson o le esenzioni fiscali utilizzate a suo tempo dalla consorte miliardaria, ma persino per un video giovanile spuntato fuori giusto adesso in cui un Rishi ventenne già rampante sbeffeggiava la working class per far ridere gli amici; o ancora con Zahawi preso di mira per le tasse eluse negli anni della sua ascesa nel business degli istituti demoscopici; o infine con Javid azzoppato dalla citazione del suo nome (con altri ex ministri britannici e leader occidentali a go-go) nell’ambito delle rivelazioni imbarazzanti degli Uber File fra i bersagli della spregiudicata attività di lobby del gigante americano dei taxi online.

Il tutto in un quadro in cui la discontinuità da Johnson – che oggi si è rifiutato di dare il suo sostegno ad alcuno dei 12, ufficialmente per “non danneggiarne le chance”, in realtà perché se ne considera tradito – fa a pugni con la provenienza di 10 di loro dai ranghi della compagine uscente. Mentre le due uniche eccezioni, gli ex Remainer Jeremy Hunt (ministro della Sanità e poi degli Esteri con David Cameron e Theresa May) e Tom Tungedhat, ex militare e presidente della commissione Esteri dei Comuni, si riciclano in brexiteer convinti per rassicurare la pancia euroscettica attuale di deputati e iscritti.

Non solo sventolando la bandiera dello Stato minimo e della tassazione bassa (in polemica con le cautele solitarie di Sunak), ma giurando fedeltà alla stessa linea hard nel divorzio da Bruxelles: con Tugendhat pronto a promettere oggi di “stracciare” anche quelle regolazioni ereditate dall’Ue che “Boris ha lasciato in piedi” e Hunt a designare come vicepremier in ticket, laddove dovesse vincere, l’ex giornalista tv ed ex ministra Esther McVey, pasionaria di una Brexit ben più ideologica di quella del primo ministro dimissionario e paladina contro Johnson del no al lockdown persino all’epoca del picco della pandemia.

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