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La battaglia tra donne in un Regno (poco) Unito

Un vento femminile spira sul mare in burrasca della Brexit. Ma è un vento di battaglia. Sul ponte di comando ci sono solo donne, o quasi, l'una contro l'altra, a cominciare dalle due che contano e si fanno sentire di più: Theresa May, primo ministro Tory del governo britannico di Sua Maestà e Nicola Sturgeon, capo del governo locale di Edimburgo e degli indipendentisti dello Scottish National Party (Snp).

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Il loro testa a testa domina le prime pagine dei tabloid come dei giornali di opinione. Il confronto, simboleggiato da fotografie e primi piani, è a tutto campo: di potere, d’ideologia, di caratteri, persino d’immagine e di dress code.

Nicola ha strappato le luci dei riflettori a Theresa, nel giorno in cui Westminster ha dato a quest’ultima carta bianca per il fischio d’inizio della partita sulla Brexit. E lo ha fatto rinnovando la sfida di un’ipotetica secessione dell’indocile (ed europeista) Scozia. Obiettivo, referendum bis: difficile, quasi impossibile da ottenere in contemporanea con i negoziati per il divorzio da Bruxelles, e tuttavia sventolato come una bandiera che torna a “fare ombra” (Guardian dixit) sulla scena politica dell’isola.

Il filo conservatore Daily Telegraph, esagerando non poco, arriva a fantasticare d’una nuova battaglia di Gran Bretagna in ricordo della “Battle of Britain” combattuta eroicamente nei cieli al principio della II Guerra Mondiale per difendere la sovranità di una patria unita niente meno che dallo spettro della Germania nazista. Ma senza spingersi tanto in là appare evidente come il duello May-Sturgeon faccia presa. Senza esser d’altronde l’unico scontro fra donne autorevoli su piazza.

Nella stessa Scozia, a contrastare Nicola Sturgeon (e a contendersi le briciole elettorali lasciate negli ultimi anni dall’Snp) provano a farsi largo altre due signore della politica “british”, entrambe risolutamente contrarie all’idea d’una rivincita referendaria: l’emergente numero uno della branca locale dei Tories, Ruth Davidson (una che in campagna elettorale non ha esitato a domare i bufali); e la leader dei Laburisti scozzesi (un tempo padroni dei collegi del territorio del nord), Kezia Dugdale.

Se non bastasse, Theresa May – che ha fra l’altro scelto due donne per il vertice del ministero dell’Interno e di Scotland Yard, quasi a voler dimostrare che persino il manganello può cambiare genere – deve fare i conti pure con i malumori dell’Irlanda del Nord: altra nazione che il 23 giugno ha votato in maggioranza no alla Brexit, in contrasto con l’Inghilterra e col risultato generale del Regno. Un luogo di conflitti sanguinosi in cui, di nuovo, impera adesso il ‘pink power’. 

I repubblicani dello Sinn Fein, reduci da una clamorosa avanzata alle urne, si sono dati come capo la 40enne Michelle O’Neill, che invoca a sua volta un futuro referendum “sui confini”, ossia il sogno d’una riunificazione con Dublino. E intanto chiede la testa d’una rivale – la premier Arlene Foster, leader unionista del Dup coinvolta in un presunto scandalo di malversazione – come precondizione di un ripristino della coalizione di unità nazionale che ha governato Belfast sin dagli storici accordi del Venerdì Santo 1998. Mentre in Galles rialza la testa il partito separatista locale, e anti Brexit, Plaid Cymru, guidato (indovinate un po’) da una donna, Leanne Wood.
Senza scordare chi, in questo panorama centrifugo di pugnaci condottiere nazionali, resta peraltro l’estremo simbolo e baluardo dell’unità del regno: la regina Elisabetta, ovviamente. Salda sul trono, ma che fra un mese compirà 91 anni.

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