“Quando fu rapito Moro ero a Parigi con Toni Negri”
Il racconto di un militante ticinese che ha collaborato con organizzazioni dell'estrema sinistra italiana durante gli anni di piombo.
“Quando hanno rapito Moro mi trovavo assieme a Toni Negri e a due altri amici a Parigi, dove vivevo. Stavamo andando a una manifestazione e giunti a Saint-Germain abbiamo sentito gli strilloni di Le Monde che annunciavano la notizia”. “Ricordo che la mia reazione, un misto tra euforia e sbigottimento, fu subito contenuta dai miei compagni”, in particolare da Toni Negri, che “arrabbiatissimo aveva perfettamente previsto come l’azione delle BR avrebbe scatenato una forte reazione” da parte dello Stato.
È il racconto di A.A. (iniziali di fantasia, ndr), uno dei cinque ticinesi coinvolti nell’unico vero procedimento che ha riguardato fatti avvenuti in Svizzera legati all’estremismo rosso durante gli anni di piombo. Il processo – conclusosi il 30 ottobre 1981 con condanne detentive da otto mesi a due anni e sette mesi erogate dalla Corte delle Assise Criminali di Locarno – mise in luce i rapporti tra il gruppo locale ed esponenti della lotta armata in Italia, cui era stato fornito rifugio e supporto logistico, anche attraverso alcuni furti di armi commessi nella Svizzera italiana.
L’influenza dei movimenti italiani
“Eravamo affascinati dall’Italia perché ci rendevamo conto che lì c’era un laboratorio politico.”
La vicinanza, non solo geografica, aveva favorito all’inizio degli anni ’70 la creazione di connessioni tra l’estrema sinistra ticinese e movimenti extraparlamentari italiani. Come quelle intessute dal Movimento giovanile progressista (MGP), nato a fine anni ’60 nel Bellinzonese, sfociato poi nel 1970 in Lotta di Classe, che ebbe contatti in particolare con Potere Operaio di Toni Negri (che a sua volta confluì successivamente in Autonomia Operaia). Questi due gruppi si ritagliarono uno spazio importante nel panorama politico cantonale dell’epoca.
Nella politica radicale di sinistra, sottolinea A.A., “c’era in quel periodo, tra il ’68 e il ’70, un vuoto che da soli facevamo fatica a riempire. Il MGP aveva infatti una forza di mobilitazione maggiore del PSA (Partito socialista autonomo, movimento entrato successivamente nel parlamento e nel governo ticinese, ndr)”.
“Eravamo affascinati dall’Italia perché ci rendevamo conto che lì c’era un laboratorio politico, mentre il Ticino delle banche e del turismo offriva ben poco”. Inoltre “nelle scuole era tornata la normalità, si era esaurita la conflittualità”. Fu quindi un passaggio naturale quello che portò a intensificare la collaborazione con i compagni d’oltre frontiera.
Toni Negri, nato il 1° agosto del 1933 a Padova, filosofo marxista e professore universitario, è stato tra i fondatori alla fine degli anni ’60 di Potere Operaio (confluito successivamente in Autonomia Operaia) e deputato a Montecitorio per il Partito Radicale. È considerato uno degli intellettuali di spicco italiani: il suo saggio sulla globalizzazione Impero, pubblicato nel 2002 con l’ex allievo Michael Hardt, è stato un successo mondiale. Nel 1983 riparò in Francia, dove ha insegnato in diverse università, per sfuggire agli inquirenti che indagavano sulle presunte connessioni tra Autonomia operaia e le BR. È tornato in Italia nel 1997 dopo aver patteggiato una pena ridotta (era stato condannato a 12 anni nel processo 7 aprile).
“Io mi ero iscritto all’università a Padova dove insegnavano Toni Negri, Ferruccio Gambino e altri leader di Potere Operaio (PO)”, continua l’ex militante di sinistra. “In quella città ho allacciato quei contatti che poi mi hanno portato nel 1974 a creare una rete di rifugi per i compagni che scappavano dalla polizia italiana. Quando la situazione diventò pericolosa anche per me, mi trasferii 4 anni a Parigi e al mio rientro in Svizzera fui arrestato”. Sorte analoga fu riservata anche ad altri ex appartenenti allo stesso movimento ticinese.
Salto di qualità nello scontro con lo Stato
Del resto “le cose andarono avanti molto in fretta” in quegli anni e i protagonisti di quelle vicende furono spesso superati dagli eventi. Così come il grado di percezione e i livelli di coscienza non sempre procedevano di pari passo con l’evoluzione della situazione sul terreno della lotta politica. E le prime collaborazioni con esponenti di spicco della sinistra extraparlamentare italiana iniziarono quando non si poteva ancora parlare di lotta armata.
“Il giorno seguente l’episodio della morte di Feltrinelli (il 14 marzo del 1972 su un traliccio a Segrate, ndr) mi è toccato di nascondere un compagno milanese convolto nell’azione”, ricorda sempre A.A. “I nostri contatti importanti erano con Autonomia (Operaia). Con le Brigate Rosse non avevamo nessun legame di tipo teorico e politico. Siamo comunque entrati episodicamente in relazione per garantire loro una via di fuga dall’Italia”.
Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dell’omonima casa editrice, in giovane età aveva partecipato alla Resistenza. Nel 1964 si recò a Cuba dove conobbe i leader della Revolucion, divenendo amico personale di Fidel Castro. Tre anni dopo venne arrestato, con la collaborazione della CIA, in Bolivia dove Ernesto Che Guevara aveva ripreso la “guerrilla”. Grazie ai suoi contatti riuscì a entrare in possesso della celebre fotografia-icona del Che scattata da Alberto Korda nel marzo 1960.
Dopo la strage di Piazza Fontana nel 1969, creò i Gruppi d’azione partigiana (GAP), una delle prime formazioni armate di sinistra e finanziò altre organizzazioni extraparlamentari, tra cui le nascenti BR. È morto il 14 marzo 1972 per lo scoppio dell’ordigno che stava collocando su un traliccio elettrico a Segrate (Milano).
Ma quello della prima metà degli anni ’70 era comunque un contesto particolare, ci tiene a sottolineare: “In Italia, diversamente dalla Germania con la RAF, una parte importante della società civile e dei media, simpatizzava per le azioni dimostrative delle BR, almeno fino al sequestro Sossi (aprile 1974 a Genova). “Poi quando iniziò la lotta armata vera e propria, le gambizzazioni, l’omicidio di giornalisti, allora le BR persero consenso e anche noi abbiamo dovuto ricrederci e interrompere i contatti”.
“Non condividevamo l’omicidio politico”
In proposito A.A. fornisce ulteriori dettagli sulla loro attività di collaborazione con l’estremismo rosso: “Con altri quattro compagni avevo contribuito a rubare e nascondere delle armi ma arrivati a quel punto ci siamo fermati, non capivamo più gli obiettivi”. E pur continuando con l’organizzazione “Soccorso rosso antifascista, nella quale svolgevamo un’attività di solidarietà alle vittime della repressione dello Stato, ci siamo chiamati fuori” poiché “l’omicidio politico non rientrava nella nostra mentalità”.
Di fronte alle bombe fasciste e alla strategia padronale che ingabbiava le lotte operaie, continua sempre A.A., “pensavamo che fosse necessario contrattaccare in modo forte e a un certo momento accettammo persino l’idea che in Italia l’insurrezione operaia fosse possibile. Ma sparare ai giornalisti e ammazzare i magistrati questo no”.
I limiti e gli errori di quell’esperienza
A questo punto però viene spontaneo interrogarsi sul bilancio di queste esperienze che per alcuni dei protagonisti hanno avuto anche strascichi di natura giudiziaria. “Quello che ora non voglio fare è idealizzare un gruppo di cui, a distanza di anni, vedo soprattutto i limiti. D’altra parte però non voglio neanche cadere in una sorta di revisionismo o di pentitismo. Sono contento di aver vissuto dai 20 ai 30 anni quella esperienza. Come spesso capita, si impara più dagli errori che dai successi”.
“Ci siamo chiamati fuori poiché l’omicidio politico non rientrava nella nostra mentalità.”
Di sicuro, a 40 anni di distanza, si può magari legittimamente ritenere che i protagonisti dell’epoca abbiano peccato di ingenuità o commesso palesi errori di analisi. “Certo, Lotta di Classe, a giudicarla oggi, appare come un gruppo ingenuo. Ma le analisi concrete sull’economia e sulla società ticinesi di allora non sono poi così fuori posto, soprattutto se si considera quali potevano essere allora gli strumenti concettuali a disposizione. Se si allude invece solo ai rapporti con la lotta armata, forse ha ragione”.
A questo proposito però, continua, “va precisato che Lotta di Classe si sciolse nel 1972, dunque ben prima che si scatenassero in Italia gli anni di piombo. Il collegamento con i gruppi italiani coinvolti in un qualche modo con la lotta armata fu limitato a pochissimi fuoriusciti di Lotta di Classe (quelli coinvolti nel processo “7 aprile”). Detta in un altro modo: quando mi trovai in contatto con i compagni italiani per le note vicende, Lotta di Classe non esisteva più”.
Il processo 7 aprile prende il nome dalla vasta e controversa indagine scattata il 7 aprile 1979 e condotta dalla Procura di Padova contro Autonomia Operaia per il suo presunto sostegno alla lotta armata, in particolare alle Brigate Rosse.
Tra gli imputati finirono anche professori universitari, tra cui Toni Negri, ritenuti dagli inquirenti contigui con il terrorismo e di essere addirittura i mandanti del sequestro Moro. La connessione con le BR non fu provata ma i vari procedimenti si conclusero con numerose condanne.
A Toni Negri furono inflitti 12 anni totali di carcere per associazione sovversiva e banda armata. Diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, hanno criticato l’inchiesta per le sue modalità (carcerazione preventiva, uso dei pentiti) e per l’uso estensivo del reato associativo che ha portato alla criminalizzazione di un intero movimento sulla base di un “teorema” (Teorema Calogero) formulato dagli inquirenti.
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