La Valle d’Aosta, crocevia della ‘ndrangheta
Vicine e simili per molti aspetti, la Svizzera francese e la Valle d'Aosta hanno anche un punto dal gusto amaro in comune: la presenza diffusa della mafia calabrese e l'assenza di una reale consapevolezza politica e sociale di questo fenomeno.
Abbiamo incontrato ad Aosta il presidente del Consiglio regionale della Valle d’Aosta, Alberto Bertin, eletto sotto la bandiera della coalizione di centro-sinistra – di tendenza moderata autonomista ed ecologista – Progetto Civico e Progressista (PCP), che da anni si batte per rafforzare la lotta alla criminalità organizzata. Una storia, la sua, che dimostra quanto non sia facile imporsi in una regione apparentemente “non mafiosa”, ma dove diversi eletti di spicco sono stati indagati per i loro legami con la ‘ndrangheta o condannati per reati simili.
“Ha fatto danni, e continuerà a farli… finché qualcuno non gli farà i mussi tanti (lo prenderà a pugni, ndr.)…”. Queste minacce – indirette, è vero – contro Alberto Bertin sono state fatte al telefono da Antonio Raso, il proprietario del ristorante La Rotonda di Aosta, condannato nel settembre 2020 a 13 anni di reclusione per il reato di associazione mafiosa e scambio di voti politici mafiosi.
Lo scorso aprile, un tribunale di Torino ha ordinato la confisca di beni per un milione di euro appartenenti allo stesso Raso, sospettato di essere alla testa della locale cellula di ‘ndrangheta. I mafiosi valdostani, come i loro omologhi svizzeri, appartengono per lo più alla criminalità organizzata calabrese, la cui presenza nel nord Italia è attestata da decenni. A far da sfondo a questa minoranza criminale è il danno subito dalla comunità calabrese nel suo insieme, che rappresenta quasi il 25% della popolazione totale della regione autonoma (130’000 abitanti).
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tvsvizzera.it: Come ha fatto la Valle d’Aosta ad arrivare a questo punto?
Alberto Bertin: La Valle d’Aosta ha vissuto una grande ondata di immigrazione dal sud Italia negli anni ’60 e ’70. All’epoca, quando si arrivava qui, non si ripartiva più, tranne che per le vacanze estive: questi immigrati finivano per perdere il contatto con la loro regione d’origine.
Le ultime generazioni, invece, mantengono legami più stretti con la Calabria, grazie soprattutto ai cellulari e al fatto che sia più facile comunicare fisicamente. I legami con il sud rimangono molto forti, sia nel bene che nel male. Alcuni di loro, residenti ad Aosta e dintorni, non solo si fanno chiamare i “Calabria Boys” ma sono in costante contatto con le famiglie ‘ndranghetiste rimaste in Calabria. Tanto che i conflitti tra loro, compresi i litigi più banali, sono “controllati” dalla Calabria.
Le ultime generazioni mantengono legami più stretti con la Calabria.
Alberto Bertin
Da un punto di vista sociologico, ciò è piuttosto preoccupante, soprattutto per questa nuova generazione, che ci si sarebbe immaginati più distante da questa cultura.
Per ritornare agli anni ’60 e ’70, il Governo ha mandato molti boss mafiosi in soggiorni obbligatori nel nord del paese, tra cui Aosta, dove hanno ricostituito le loro reti. Per molti anni, questi mafiosi non si sono fatti notare, almeno in apparenza, perché non esercitavano un vero controllo sul territorio. Ecco perché la loro presenza non è stata notata immediatamente, anche quando si aveva a che fare con crimini sospetti. Negli anni 1990, ci sono stati due o tre omicidi direttamente legati alle faide mafiose, poi negli anni 2000 una serie di incendi dolosi, che hanno portato all’inchiesta “Tempus Fugit” sulla presenza della mafia nella valle. Uno di questi incendi era scoppiato in un cantiere gestito da un’impresa edile di proprietà di un calabrese – ce ne sono molte in questa zona – e un altro in un cantiere vicino all’ospedale. Il primo ha sporto denuncia ai carabinieri, ma è stato a sua volta coinvolto nell’inchiesta. Il secondo non ha denunciato l’incidente perché stava già pagando una guardiania, un servizio ambito però da un’altra famiglia mafiosa. Ha preferito cercare un’intesa e ha detto loro: “Mettetevi d’accordo tra di voi, pagherò, ma non due volte…”.
Negli ultimi anni, la Val d’Aosta è stata scossa da diverse indagini che hanno coinvolto politici e mafiosi. Fin dove si estende la loro influenza?
La mafia ha stabilito relazioni nella sfera politica ed è riuscita ad aggiudicarsi alcuni appalti. Inoltre, si interessa ai voti e cerca di controllare le elezioni. L’inchiesta “Tempus Fugit” ha dimostrato che la presenza della ‘ndrangheta è reale e alcuni elementi hanno fatto emergere fatti più che sospetti. Ma la popolazione non era al corrente di nulla, non c’era consapevolezza. Da allora, ciò è cambiato.
Consapevolezza non significa necessariamente che l’opinione pubblica presti veramente attenzione al problema o lo consideri importante. Non è che i valdostani, come gran parte degli svizzeri, considerano che in fin dei conti la mafia è solo un prodotto folcloristico o esotico, riservato alla sola Calabria?
Sì, in parte è vero. Un’indagine partita da Catanzaro all’inizio di maggio ha però portato all’arresto di un avvocato ad Aosta. In effetti, le mafie dispongono di somme colossali e si circondano di persone con determinate competenze, professionisti, i famosi “colletti bianchi” che offrono i loro servizi alla mafia, gestiscono i loro beni o dicono loro dove e come investire il loro denaro.
La ‘ndrangheta sta interferendo nelle elezioni, si sta radicando nel territorio e a poco a poco sta riproducendo qui i meccanismi della sua regione d’origine.
Alberto Bertin
Oggi la vera emergenza in Valle d’Aosta, come in gran parte del nord Italia, è la ‘ndrangheta. Sta interferendo nelle elezioni, si sta radicando nel territorio e a poco a poco sta riproducendo qui i meccanismi della sua regione d’origine. I calabresi rappresentano circa il 25% della popolazione (circa 130’000 abitanti). La maggior parte di loro è ben integrata, ma dobbiamo ricordare che sono le prime vittime della ‘ndrangheta. Il problema non sono loro, ma gli ‘ndranghetisti, che danneggiano tutta la comunità.
A livello politico, ha un sostegno concreto, o almeno si sente sostenuto?
È stato molto difficile, molto difficile. In passato, quando nessuno era a conoscenza della presenza della ‘ndrangheta e dei rischi che ciò comportava, era mal visto parlarne. Per alcuni, parlarne significava danneggiare l’immagine della valle.
Ho dovuto lottare per far ammettere le cose. All’epoca mi hanno dato della Cassandra.
Alberto Bertin
Ma è proprio perché amo questa regione che ho denunciato la presenza di queste persone. Ho però dovuto lottare per far ammettere le cose. All’epoca mi hanno dato della Cassandra… Il problema è sempre lo stesso: le indagini fanno notizia, tutti gli occhi sono puntati su questi casi. Poi pensiamo però che il pericolo sia passato e ritorniamo al punto di partenza. Invece dobbiamo parlarne affinché non si abbassi l’attenzione.
Prendete il consiglio comunale di Saint-Pierre, che è stato sciolto per infiltrazione mafiosa: questo dimostra che i nostri piccoli comuni non hanno né le strutture, né la sensibilità, né le capacità per “leggere” ciò che succede in termini di presenza mafiosa. È importante poter offrire gli strumenti – giuridici e culturali – necessari per interpretare questo fenomeno. E questo non vale solo per l’Italia! Le organizzazioni criminali approfittano del fatto che la gente non sa cosa sta succedendo, non capisce con chi ha a che fare e a volte si trova coinvolta, magari in buona fede.
A proposito di strumenti, in Ticino è stato recentemente inaugurato un Osservatorio della criminalità organizzata, creato a Lugano da un collega della RSI in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana. C’è un’organizzazione simile in Valle d’Aosta?
Questo è uno dei motivi per cui non piaccio agli ‘ndranghetisti! Perché oltre a denunciare costantemente la loro presenza, a porre ostacoli e a seguire tutto ciò che ha a che fare con la confisca dei loro beni, sono quasi 15 anni che chiedo la creazione di un osservatorio sulle infiltrazioni e la presenza della ‘ndrangheta. Non è ancora stato istituito, ma dovremmo essere in grado di farlo entro la fine dell’anno, almeno questo è l’obiettivo. Tuttavia, un osservatorio non risolve tutto, perché la lotta alla mafia richiede molti strumenti, anche se può contribuire al monitoraggio della situazione e a certe scelte amministrative.
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Criminalità organizzata sotto osservazione
Lo scorso maggio, Rosario Livatino, un magistrato siciliano assassinato nel 1990 dalla Stidda, l’altra mafia siciliana, è stato beatificato nella cattedrale di Agrigento. Questo omaggio a uno degli innumerevoli martiri della giustizia italiana può sorprendere quando si sa che la Chiesa ha talvolta legami ambigui con la criminalità organizzata…
Sì, ed è per questo che è un perfetto riflesso della società in cui evolve. Ad esempio, una messa in onore della Madonna di Polsi – il santuario della ‘ndrangheta – è stata celebrata qui ad Aosta il 2 settembre 2015 (giorno della festa religiosa e dell’incontro annuale dei boss calabresi, ndr). È stata addirittura portata una copia di questa Madonna. Vi lascio immaginare chi c’era dietro questa messa: il boss Giuseppe Nirta, originario di San Luca.
Anche in questo caso, la Chiesa non è che il riflesso della società… non ha una colpa particolare, ma purtroppo non ha nemmeno nessun merito particolare! Diciamo che, come spesso accade, questo è il risultato di una sottovalutazione del problema. Ed è soprattutto un errore, perché oggi non possiamo più dire che non sapevamo. Qualche anno fa, potevamo ancora usare questo argomento per giustificarci. Oggi è impossibile. Oggi, tutti sanno.
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