Ddl Zan, “Gli svizzeri l’hanno votato nel 2020”
Il disegno di legge pendente al Senato contro l'omotransfobia (ddl Zan), che sta suscitando accese discussioni in Italia, non costituisce una novità al di qua del confine.
Un dibattito analogo si era tenuto in occasione della revisione dell’articolo 261 bis del codice penale svizzero (Discriminazione e incitamento all’odio) da parte delle Camere federali nel 2018 e, soprattutto, del successivo referendum del 9 febbraio 2020 – che aveva visto l’adesione del 63% della popolazione alla proposta di governo e parlamento – che avevano sancito la punibilità delle discriminazioni e delle aggressioni fondate sull’orientamento sessuale delle vittime.
La stragrande maggioranza dei partiti ha sostenuto la riforma – contrarie sono state solo l’Unione democratica di centro (destra) e la piccola formazione ultraconservatrice di ispirazione religiosa Udf – che ha preso le mosse da un’iniziativa parlamentare del 2013 del consigliere nazionale socialista Mathias Reynard che chiedeva appunto di estendere il perseguimento penale dei comportamenti previsti dalla cosiddetta norma antirazzismo anche alle manifestazioni omofobe.
Il nodo dell’identità di genere
Un percorso simile a quello del ddl ZanCollegamento esterno che nella sua attuale formulazione, approvata a Montecitorio lo scorso 4 novembre, oltre agli atti di discriminazione per motivi “fondati sull’orientamento sessuale” indicati nell’articolo 604 bisCollegamento esterno del codice penale italiano – così come per le aggravanti di cui al 604 terCollegamento esterno -, include anche quelli “sull’identità di genere”, concetto che sta suscitando le maggiori critiche da parte degli oppositori e che non è contemplato dalla legislazione elvetica.
La definizione espressa dell’identità di genere (“identificazione percepita e manifestata in sé in relazione al genere, anche se non corrisponde al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione“) all’articolo 1 del disegno di legge promosso dal parlamentare dem Alessandro Zan non fa l’unanimità.
Per l’AvvenireCollegamento esterno, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana (Cei), ad esempio, “cancellerebbe il dualismo uomo-donna a vantaggio di un’autopercezione individuale per la quale non verrebbe neppure richiesta una forma di stabilità”. Ma anche alcuni gruppi di femministe hanno stigmatizzato questa nozione che a loro dire cancellerebbe la realtà dei corpi, in particolare di quello femminile, menomando così le specificità della donna.
Un aspetto che era stato affrontato anche durante i lavori alle Camere federali sulla revisione dell’articolo 261 bis ma su cui non si è coagulato il necessario consenso, ragione per la quale è stato ben presto abbandonato. “Era stato avanzato un emendamento di minoranza per contemplare nella norma anche le discriminazioni riguardanti l’identità di genere”, spiega Laura Riget, coordinatrice della campagna “Combatti l’odio” per la Svizzera italiana, “purtroppo, però questa proposta non è passata”.
In proposito va rilevato, come evidenziano i sostenitori del ddl Zan, il termine è già stato “sdoganato” dalla giurisprudenza e figura in disposizioni e trattati internazionali sottoscritti da Roma. Ne è un esempio il decreto legislativo 18 del 2014Collegamento esterno che attua la direttiva europeaCollegamento esterno di tre anni prima sulla protezione ai rifugiati.
Una limitazione della libertà d’espressione?
Il secondo elemento contestato dagli oppositori riguarda la presunta contrazione della libertà di opinione insita nel disegno di legge, che si celerebbe all’articolo 4: il pluralismo delle idee, ribadito a chiare lettere, trova il suo limite nel “concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”.
Argomento cavalcato (senza successo) anche dai promotori del referendum in Svizzera: “Non è affatto vero che una normativa del genere va a limitare la libertà d’opinione, quella che viene impedita è la libertà di diffondere odio, violenza verbale contro altre persone”, sostiene Laura Riget.
“Con il ddl Zan, così come l’articolo 261 bis del codice penale svizzero, viene assolutamente mantenuto il diritto di esprimere le proprie convinzioni, come ad esempio, quelle contrarie alle adozioni di bambini da parte di coppie omosessuali. Ammesso, beninteso, che queste vengano espresse con rispetto e non sfocino in insulti gratuiti sulla base dell’orientamento sessuale delle persone”.
Del resto, anche in questo caso la giurisprudenza italiana ha avuto modo di precisare, in relazione alle fattispecie analoghe (motivi razziali, etnici, nazionali e religioni) contemplate nei due articoli citati (604 bis e ter del codice penale) che vi deve essere un “collegamento immediato diretto e comprovato” tra la discriminazione o la violenza e l’istigazione.
Quale è il bilancio della norma contro l’omotransfobia in Svizzera?
Ma al di là degli aspetti legali la questione emergente attiene all’efficacia delle nuove norme che, come detto, in Svizzera sono già in vigore in seguito al referendum dell’anno scorso. “È difficile trarre un bilancio in un lasso di tempo tutto sommato così esiguo, inoltre è stato un anno molto particolare in cui la vita sociale è stata molto limitata a causa della pandemia che ha costretto le persone a casa e limitato le relazioni sociali”, osserva Laura Riget.
“Detto questo, le poche cifre che sono uscite sembrano confermare quello che le organizzazioni attive in questo ambito dicono da sempre, vale a dire che il fenomeno dell’omotransfobia esiste in Svizzera e occorre intervenire”. Il 261 bis “è stato un indubbio passo in avanti verso la giusta direzione ma resta ancora molta strada da fare”.
Chiunque incita pubblicamente all’odio o alla discriminazione contro una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale,
chiunque propaga pubblicamente un’ideologia intesa a discreditare o calunniare sistematicamente tale persona o gruppo di persone,
chiunque, nel medesimo intento, organizza o incoraggia azioni di propaganda o vi partecipa,
chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità,
chiunque rifiuta ad una persona o a un gruppo di persone, per la loro razza, etnia, religione o per il loro orientamento sessuale, un servizio da lui offerto e destinato al pubblico,
è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
Cifre finora non clamorose
A ben guardare però i numeri crudi che sono stati diffusi a metà maggio dalle organizzazioni che tutelano gli appartenenti al variegato mondo delle minoranze Lgbt hanno riferito di un totale di 61 aggressioni di natura omofoba in Svizzera nel 2020, il 18% delle quali si sono concretizzate in episodi di violenza fisica (l’anno precedente sono state 66, un terzo delle quali classificate come almeno vie di fatto). Solo un caso su cinque sfocia in una denuncia penale, indicano gli estensori del rapporto, benché la metà di essi origini conseguenze di natura psicologica per le vittime.
A livello cantonale, in Ticino ci sono state 13 denunce inoltrate al Ministero pubblico in un anno, ma comprendono la totalità delle fattispecie incluse nell’articolo 261 bis (tutti i reati d’odio). “Gli episodi denunciati sono solo la punta dell’iceberg che non rispecchiano la reale portata del problema”, rileva la copresidente del Partito socialista ticinese. “Tanti casi, lo sappiamo, non vengono denunciati per svariate ragioni e riguardano comunque solo una fattispecie legale particolare”.
Quello che conta semmai “è il risultato chiarissimo scaturito dalle urne, un segnale fortissimo dell’elettorato svizzero che non tollera più comportamenti e aggressioni omofobe”, insiste Laura Riget. Si tratta insomma di un cambiamento di mentalità che travalica l’effetto immediato e concreto della nuova norma.
Ma se l’articolo 261 bis nella Confederazione è solo una tappa, seppur importante, lungo il percorso di emancipazione di alcune minoranze, in agenda ci sono già altre scadenze. In sedici cantoni (tra cui il Ticino) sono state promosse, a vari livelli, iniziative per istituire una statistica uniforme e completa delle aggressioni “Lgbti-fobiche”.
Le prossime tappe in Svizzera
Il governo federale, considerate le difficoltà pratiche e giuridiche nel differenziare e classificare i diversi tipi di aggressioni regolate dall’articolo 261 bis, ha promesso l’implementazione di un “sondaggio di vittimizzazione”, con il coinvolgimento dell’Ufficio federale di statistica e dell’Ufficio federale per l’uguaglianza tra i sessi. In parallelo vengono promosse a livello locale formazioni mirate per la gestione dei casi di omotransfobia per gli agenti di polizia e i magistrati.
Un’altra importantissima battaglia che è alle porte, aggiunge Laura Riget, sarà poi il voto del 26 settembre sul matrimonio per tuttiCollegamento esterno. “Già adesso esiste in Svizzera la possibilità per le coppie omosessuali di registrarsi in unioni domestiche ma se passerà la proposta uscita dal parlamento, saranno loro riconosciuti gli stessi diritti delle persone sposate, ad esempio a livello assicurativo e di medicina riproduttiva”, conclude la granconsigliera ticinese.
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