Pietro Bianchi, l’architetto ticinese con il cuore d’archeologo
Tra gli svizzeri illustri entrati a far parte della storia di Napoli vi è naturalmente Domenico Fontana. Non è però l'unico architetto ticinese ad avere lasciato una traccia nella città partenopea. Nel XIX secolo, Pietro Bianchi divenne Primo architetto di Corte. La sua vera passione era però un'altra.
Al quinto piano di un palazzo anonimo dei Quartieri Spagnoli, il cuore pulsante di Napoli, c’è un busto che raffigura un architetto ticinese, Pietro Bianchi. Quel busto, insieme a una targa posta al di fuori del palazzo, sono le uniche rappresentazioni in ricordo dell’architetto in città.
“Bianchi, in effetti, è stato vittima di un lungo oblio che è durato dalla sua morte, a metà dell’Ottocento, fino all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso”, spiega Sergio Villari, professore di Storia dell’Architettura all’Università Federico II di Napoli e che al ticinese ha dedicato una buona parte dei suoi studi.
“Il motivo alla base di questo oblio – racconta il professore – era un giudizio storiografico poco lusinghiero”. Storicamente, infatti, Pietro Bianchi è stato l’autore di un’unica opera, la chiesa di San Francesco di Paola a Piazza del Plebiscito realizzata tra il 1816 e il 1846, da molti considerata architettonicamente poco interessante perché simbolo della restaurazione, di un classicismo freddo e accademico.
“In realtà – continua Villari – io credo che Pietro Bianchi sia stato uno degli architetti più avanzati della sua epoca e che proprio per questo abbia finito per essere incompreso per lungo tempo. La verità è che non solo la Basilica di Francesco di Paola ha un suo importante significato ma soprattutto, per capire davvero la grandezza di Bianchi, bisogna guardare non tanto alla sua attività da architetto quanto a quella di archeologo. Una disciplina che il ticinese ha contribuito a reinventare”.
Bianchi e la scoperta dell’antico.
Pietro Bianchi, nato a Lugano nel 1787, dopo gli studi liceali presso i padri somaschi di Lugano, si trasferì prima a Milano, nel 1803, e poi a Pavia dove nel 1806 si laureò ingegnere-architetto. Ma fu a Roma che iniziò davvero la sua carriera.
Nella Roma napoleonica del 1807 si interessò all’antichità e sin da subito entrò nel gruppo di lavoro degli scavi archeologici della città di Roma.
“L’interesse degli architetti per l’archeologia – spiega il professor Villari – all’epoca è del tutto naturale. Tutti gli architetti a partire dalla metà del Settecento riscoprono il valore della classicità come fonte di ispirazione per le proprie opere. Fino ad un certo punto architettura e archeologia marciano affiancate. Pietro Bianchi fu colui che a causa della sua smodata passione per l’antico finisce per mettere per la prima volta in contrapposizione archeologia e architettura”.
Per capire in che modo, bisogna tener presente che a Roma Bianchi lavorò sotto i francesi che avevano portato lì una cultura archeologica nuova, scientifica. “In questo contesto – spiega Villari – Bianchi fu l’animatore di questa nuova archeologia romana che chiedeva di rispettare la scoperta archeologica in quanto tale e non in quanto mezzo di supporto all’architettura per abbellire le città”.
Erano i prodromi della rottura tra archeologia e architettura che però diventerà definitiva soltanto qualche anno più tardi.
L’arrivo a Napoli
Nel 1814 Papa Pio VII, fino ad allora prigioniero dei francesi, fa il suo ritorno a Roma. Bianchi, così come aveva fatto una repentina carriera nei ranghi dell’amministrazione francese, con la stessa velocità perde tutto con il ritorno del governo pontificio.
“La sua fortuna – spiega il professore Villari – fu l’amicizia con Antonio Canova, scultore idolatrato praticamente da tutti e che dal punto di vista politico si era sempre tenuto fuori dai giochi”.
Canova aveva tutte le intenzioni di dare una mano all’architetto ticinese. La prima occasione arrivò nel 1816 quando Ferdinando IV di Borbone torna a Napoli da Palermo, unisce i due regni e si incorona Ferdinando I, Re delle Due Sicilie.
Ferdinando trova il largo di fronte al Palazzo Reale completamente diverso da come lo aveva lasciato. I francesi avevano dato inizio a un’opera di riqualificazione urbana dell’intero Largo di Palazzo, l’attuale Piazza del Plebiscito: due chiese erano già state abbattute e le fondamenta di nuove costruzioni erano già state poste.
“Ferdinando – spiega il professore – chiaramente voleva il più possibile cancellare il passato napoleonico ma di fronte alle demolizioni che erano state effettuate non poté fare altro che modificare il progetto”.
Fu indetto un concorso per la costruzione di una nuova chiesa voluta da Ferdinando come ex voto per la riconquista del regno. A partecipare al concorso furono gli stessi architetti che avevano partecipato ai lavori precedenti sotto i francesi. Di fatto, quindi, grandi novità nei progetti presentati non ce ne furono.
Il “Pantheon napoletano”
Quando Canova introdusse Pietro Bianchi a Ferdinando I, l’architetto gli presentò invece un progetto del tutto innovativo che spinse il Re ad affidare i lavori a lui nonostante non avesse partecipato al concorso pubblico. Nasce così la chiesa di San Francesco di Paola.
“Se si guarda il progetto originale di Pietro Bianchi, poi modificato negli anni successivi, si nota una cosa straordinaria”, spiega Villari. “Si trattava della trasposizione archeologica precisa del Pantheon di Roma”.
Eccola qui la rottura definitiva tra architettura e archeologia: *A differenza di tutti gli altri, Bianchi non si limitò a ispirarsi a un’opera dell’antichità. Ma per dare un valore a sé stante a quell’opera decise di ricostruirla parimenti limitandosi ad aggiustare quei piccoli errori negli allineamenti che gli antichi commisero all’epoca. Insomma, l’autonomia totale del modello antico rispetto all’architettura moderna”.
Il progetto del “Pantheon napoletano” permise a Bianchi di fare carriera, divenne Primo architetto di Corte e fu il più celebrato di quegli anni.
“A un certo punto, però, decide di rinunciare a qualunque incarico professionale perché il suo interesse era un altro: la riscoperta dell’antichità”. Smise di progettare e divenne a tutti gli effetti l’archeologo di Corte. Fu Direttore del Museo Farnesiano (l’attuale Museo Nazionale), lavorò a diversi scavi ma il punto massimo della sua carriera da archeologo lo toccò nel 1831 quando riuscì a ottenere da Francesco I, successore di Ferdinando, il titolo di direttore degli scavi di Pompei ed Ercolano.
Bianchi dunque riuscì a terminare la sua carriera seguendo la sua più grande passione: la riscoperta dell’antico. Nel 1840 si ritirò nella sua casa ai Quartieri Spagnoli dove morì nel 1849.
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