Quella discoteca di Bienne che vietò l’ingresso agli italiani
All'inizio del 1977, all'ingresso di una discoteca di Bienne, nel Canton Berna, fu affisso un cartello: "Per tutti gli italiani è vietata l'entrata in questo locale!". La vicenda suscitò un putiferio.
A volte sembra che sia passata quasi un’era geologica. Eppure, sono trascorsi meno di 50 anni. Nemmeno due generazioni. Oggi gli italiani e le italiane che arrivano in Svizzera sono accolti un po’ come i vicini di casa. Gli epiteti riservati ai loro predecessori – potremmo stilarne una lunga lista – sono finiti nei bassifondi della storia.
Ma a volte setacciare di nuovo questi bassifondi è necessario.
A riesumare un episodio di ordinario razzismo in salsa elvetica ci ha pensato lo storico Florian Eitel. In un recente articolo pubblicato sulla rivista di storia Traverse e intitolato Zerrissene Gesellschaft, Zerbrochenes GlasCollegamento esterno (Società frammentata, vetri frantumati), Eitel, curatore al Nuovo Museo di Bienne, ritorna sulla vicenda della discoteca Alba.
Mostra a Bienne
La vicenda della discoteca Alba è presentata nell’ambito di una mostra organizzata al Nuovo Museo di BienneCollegamento esterno dedicata ai lavoratori e alle lavoratrici stagionali in Svizzera.
L’esposizione si basa su quella organizzata a Ginevra quattro anni fa e di cui avevamo riferito in questo articolo.
È il primo gennaio 1977. Sulla porta d’ingresso di questo esercizio pubblico non proprio di prima categoria della città del Canton Berna viene affisso un cartello: “Per tutti gli italiani è vietata l’entrata in questo locale!”.
La notizia si diffonde rapidamente e la polemica monta. Qualche giorno dopo su un giornale locale viene pubblicata una prima lettera di un lettore: “Ci chiediamo seriamente se il ‘niente italiani’ non sarà presto parte della routine quotidiana come i cartelli ‘Ebrei indesiderati’ o ‘niente negri'”.
La sera del 6 gennaio, un centinaio tra italiani, italiane e militanti del Centro giovanile autonomo (AJZ) di Bienne inscenano una protesta davanti alla discoteca Alba. I due proprietari del locale – i fratelli Toni e Joseph Favrod – chiudono la porta d’ingresso. La situazione rapidamente degenera. I manifestanti rompono porte e finestre e chiedono che il cartello venga tolto.
L’indomani, la scena si ripete, anche se nel frattempo il vituperato cartello è stato rimosso. Questa volta, però, la dimostrazione è più pacifica. I giovani e le giovani dell’AJZ improvvisano un picnic all’interno del locale.
Nei giorni successivi, i fratelli Favrod provano a giustificarsi. Il cartello – affermano – non aveva nessun presupposto razzista. I due proprietari cercavano solo di evitare che nel loro locale entrassero “cricche di teppisti che molestano soprattutto le ospiti di sesso femminile e hanno causato oltre 300 franchi di danni all’anno rompendo cucchiai e tazze e rubando sedie e persino tavoli”.
Le ragioni addotte dai Favrod trovano una certa eco su uno dei quotidiani di Bienne: “Si tratta perlopiù di giovani disoccupati, che invece di rientrare nel loro Paese preferiscono andare a timbrare [la tessera della disoccupazione, ndr] e disturbare la gente onesta; questo gruppo è specializzato nelle risse”, scrive un giornalista.
Diverse lettere di lettori e lettrici vanno nella stessa direzione, ci dice Florian Eitel. Anche se spagnoli e portoghesi sono presenti in Svizzera da anni, quella italiana è la comunità straniera di gran lunga più numerosa e cristallizza tutto il risentimento di una certa frangia della popolazione elvetica. “Non è un caso che il cartello affisso all’Alba menzioni solo gli italiani”, sottolinea lo storico di Bienne.
Il tentativo di discolparsi da qualsiasi accusa di razzismo però non convince. Oltre ai tristemente classici stereotipi che i due fratelli veicolano sugli italiani, emergono una serie di fatti che dimostrano come i Favrod – che si erano proposti di “ripulire” il loro locale dai “Sautschinngen” (da Sau – porco – e da Tschingg, il nomignolo con cui venivano ingiuriosamente trattati gli italiani, derivante dal cinque del gioco della morra) hanno contribuito a gettare benzina sul fuoco.
Quarta iniziativa Schwarzenbach
La vicenda della discoteca Alba sopraggiunge in un momento importante. La popolazione elvetica è infatti chiamata ancora una volta a esprimersi su un progetto per limitare il numero delle persone straniere. La quarta iniziativa contro il cosiddetto “inforestierimento”, promossa dal Movimento repubblicano (estrema destra) di James Schwarzenbach, è in votazione il 13 marzo di quell’anno. Il testo sottoposto all’elettorato recita: “La Confederazione provvede affinché il numero degli stranieri, domiciliati e dimoranti, residenti in Svizzera, non superi il 12,5%”.
I fratelli Favrod – se ci fosse ancora bisogno di conferme sul loro orientamento politico – fanno campagna a favore.
Contrariamente alla seconda iniziativa Schwarzenbach sottoposta a voto popolare nel 1970, respinta dal 54% dell’elettorato, questa volta il “no” è molto più netto. Il progetto è bocciato dal 70,5% delle persone votanti, anche se a Bienne, città industriale duramente colpita dalla recessione causata dalla crisi petrolifera, la proporzione di “no” è più contenuta (58%).
La svolta degli anni Ottanta
L’episodio della discoteca Alba sarebbe quindi solo un ultimo rigurgito locale di quella xenofobia anti-italiana piuttosto dominante nel Paese fino a qualche anno prima?
Florian Eitel ne dubita: “No, penso che questo sentimento fosse ancora molto forte in una parte importante della popolazione. Non credo che si possa già parlare di una maggiore accettazione della comunità italiana”.
Se la proporzione di “sì” alla quarta iniziativa Schwarzenbach è stata bassa lo si deve piuttosto ad altri fattori, riassume lo storico. In particolare, al fatto che la crisi economica dei primi anni Settanta si è tradotta in un forte calo della manodopera straniera. Inoltre, le autorità federali avevano preso una serie di misure per limitare l’immigrazione. Il timore dell'”inforestierimento” era insomma meno acuto rispetto a qualche anno prima, ma non per questo la xenofobia anti-italiana era diminuita.
“È altresì vero – prosegue Florian Eitel – che ci si sta dirigendo verso un momento di svolta. A partire dalla fine degli anni Settanta, sia nella società che tra le autorità si assiste a un cambiamento di mentalità. Si comincia a rendersi conto che non ha più senso parlare di immigrazione temporanea e che le persone giunte in Svizzera ormai resteranno. Bisogna quindi andare nel senso dell’integrazione, in particolare quella dei bambini e delle bambine nelle scuole pubbliche”.
La comunità italiana diventa così nel corso degli anni Ottanta il simbolo di questa integrazione riuscita. La xenofobia di una frangia della popolazione svizzera non scompare però come per incanto. Cambia semplicemente la nazionalità dello spauracchio. Durante lo stesso decennio, infatti, la carta del Pietro nero passa nelle mani delle persone provenienti dalla ex Jugoslavia. La storia può ripetersi.
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