In appello riconosciuta l'aggravante mafiosa a carico di Carminati, Buzzi e altri 16 imputati minori
Keystone
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Floriana Bulfon
La corte d’appello di Roma corregge la sentenza di primo grado, riconoscendo l’aggravante mafiosa per 18 imputati, tra cui Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. I due, che si sono però visti ridurre le condanne a 14 e 18 anni, erano a capo dell’organizzazione che gestiva diverse attività criminali nella capitale nell’ambito degli appalti, delle forniture e delle concessioni pubbliche che coinvolgevano servizi municipali e cooperative.
Non servono bombe o riti di affiliazione, non è necessario parlare in calabrese o siciliano. È mafia quella che agisce con l’intimidazione e la riserva di violenza, quella fondata sul rispetto che si deve a chi comanda. Mafia capitale è mafia e Roma non può più dire di esserne immune.
Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono stati i capi di una rete criminale che ha inquinato l’amministrazione pubblica. Capace di mimetizzarsi e non fare rumore, di essere violenta solo all’occorrenza, seguendo la teoria del mondo di mezzo, dove alle persone che stanno sopra fa comodo avere persone sotto che facciano ciò che loro non possono permettersi di fare.
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La Corte d’Appello ha condannato a 14 anni e sei mesi l’ex Nar e a 18 anni e quattro mesi il ras delle cooperative rosse. Con loro ‘spezzapollici’ buoni per far capire quali siano le regole e politici e manager pronti a mettersi al servizio della holding criminale, dal capogruppo Pdl in Comune Luca Gramazio, all’allora amministratore delegato della municipalizzata dei rifiuti Franco Panzironi.
Una sentenza che segna una discontinuità nella storia della città. Non più criminalità “de noantri”, malacarne borgatara. Quella scoperta dal procuratore capo Giuseppe Pignatone e dai carabinieri del Ros è «una mafia autoctona, originale e originaria». Mafia anche se non si chiama Cosa nostra o ‘ndrangheta, perché è proprio la Cassazione ad aver spiegato più volte che per mafia non si devono intendere solo le grandi organizzazioni, ma anche «piccole mafie con un basso numero di appartenenti» capaci di «assoggettare un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento e omertà».
La condanna è netta e probabilmente sarà richiesto per i due capi anche il 41bis, il carcere duro. Nel frattempo il braccio violento di Carminati, Riccardo Brugia, insieme a ‘er bojo’ Matteo Calvio, uno che sul bicipite s’è tatuato ‘la paura non fa per me’, tornano in carcere.
Riconosciuta l’aggravante mafiosa
Non è più tempo di esultare per quello che il legale di Carminati, Giosuè Naso, ha definito «un processetto». Come era accaduto in primo grado quando il re nero e il suo sodale Buzzi furono condannati come se fossero a capo di due distinte organizzazioni, una che corrompe e l’altra che fa estorsioni. Ci fu una manifestazione di giubilo nonostante le pene fossero più alte, mentre ora la Corte presieduta da Claudio Tortora ha ritenuto che gli arresti abbiano smantellato l’organizzazione, e quindi ha applicato la legge in vigore nel dicembre 2014.
Si poteva esultare perché l’importante era che Roma non fosse infangata, non si sentisse in colpa. Una città che per troppo tempo ha preferito negare, ritenendosi estranea e lontana, dove però Carminati e Buzzi, i Fasciani, gli Spada, i Casamonica negli anni sono riusciti a fare affari indisturbati e a divorare la cosa pubblica. «Mafia capitale è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato» – sottolinea il procuratore capo della Capitale – «il primo problema di Roma sono i reati contro la pubblica amministrazione e l’economia. Sono le corruzioni, le turbative d’asta, le bancarotte, le frodi multimilionarie».
Il problema è profondo e le condanne e la repressione non sono sufficienti a risolverlo. Come in tutti i contesti criminali, se le istituzioni non riconquisteranno il territorio, se non saranno capaci di seminare speranza, il vuoto sarà presto occupato da altri e Roma immobile continuerà a sprofondare.
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