L'invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina dopo la strage di Capaci sarebbe l'elemento di novità che indusse Cosa nostra ad accelerare i tempi dell'eliminazione di Paolo Borsellino. Lo sostengono i giudici della corte d'assise di Palermo che hanno depositato le motivazione della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
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tvsvizzera.it/fra con RSI
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Alfredo Montalto, presidente della corte d’assise di Palermo che ha celebrato il dibattimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, allo scadere dei 90 giorni, termine annunciato per il deposito delle motivazioni della sentenza, ha consegnato la sua verità su uno dei periodi più bui del Paese, quello delle stragi mafiose degli anni ’90.
Il caso ha poi voluto che il mastodontico provvedimento -oltre 5000 pagine – che ricostruisce i rapporti che pezzi dello Stato ebbero con cosa nostra in quel periodo sia stato depositato in un giorno particolare: quello del 26esimo anniversario della strage costata la vita a Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Un capitolo importante del provvedimento della corte è dedicato proprio all’attentato di via D’Amelio la cui esecuzione, a parere dei giudici, sarebbe stata accelerata proprio dalla cosiddetta trattativa.
“Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizio nealla ‘trattativa’ – scrive la corte – conclusione che per altro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato”.
Il ruolo di Dell’Utri
E un lunghissimo capitolo della sentenza è dedicato a Marcello Dell’Utri, condannato a 12 anni, come i carabinieri, per minaccia a Corpo politico dello Stato. Come i militari del Ros avrebbe rafforzato il piano criminale di Riina “con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra ,manifestata nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, rafforzò il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992”.
“Per anni, fino al 1994 almeno, – spiegano poi – fu intermediario tra l’ex premier e la mafia”. Prova ne sarebbero i pagamenti che le società dell’ex presidente del Consiglio avrebbe fatto avere ai clan. E se pur non ci sono prove dirette “dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.
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