Una petizione per frenare la fuga del personale infermieristico in Svizzera
Una petizione promossa in queste settimane nel Comasco e nel Lecchese chiede a Milano di ritoccare i salari degli infermieri delle zone di confine per evitare la loro fuga in Svizzera.
L’emorragia di medici e infermieri verso la Svizzera sta creando più di un grattacapo alle strutture sanitarie lombarde, a ridosso del confine, e si cercano contromisure per arrestare questo esodo. Un fenomeno che sembra essersi accentuato con la pandemia, che ha messo ulteriormente sotto pressione il personale con turni massacranti e congedi soppressi.
L’aumento incessante dei pazienti e l’apertura di nuovi reparti Covid hanno infatti acuito le endemiche carenze di personale, in particolare paramedico, che si registrano da tempo a causa delle politiche di bilancio attuate dalle varie amministrazioni.
Differenze ai due lati del confine
Non che manchino criticità in questa fase anche all’interno del sistema elvetico, come testimonia la recente approvazione alle urne, lo scorso 28 novembre, dell’iniziativa popolare “per cure infermieristiche forti”,Collegamento esterno che aveva proprio lo specifico obiettivo di migliorare le condizioni della professione, ma evidentemente la forza attrattiva dei salari vigenti nella Confederazione continua ad avere un certo peso per gli operatori del settore, soprattutto se provenienti dall’estero.
“I tagli negli ultimi dieci anni hanno portato a una riduzione del 30% degli organici”
Massimo Coppia, Uil
Le differenze sono note: un infermiere lombardo percepisce sui 1’400 euro mensili, che possono arrivare a 1’800 con gli straordinari. Nel Canton Ticino invece il salario è di circa 4’800 franchi, intorno ai 4’000 netti (cui vanno però poi detratte le imposte dirette) che tradotti in valuta continentale fanno 3’880 euro.
Cifre che non possono non condizionare le aspirazioni e le scelte professionali di molti operatori sociosanitari al di là della frontiera. Solo nel 2021, secondo i dati forniti dall’Associazione socio sanitaria territoriale lariana (Asst), sono 283 i dipendenti che hanno abbandonato la professione. Di questi oltre un centinaio, dicono alcune stime, hanno passato il confine.
Una petizione lanciata dalla Uil
Da qui l’iniziativa del sindacato Uil del Lario, concordata con la stessa organizzazione sanitaria locale, di lanciare una petizione all’indirizzo dei responsabili regionali, per cercare di attenuare questo divario con incentivi finanziari – indennità di confine – finalizzati a trattenere il personale nelle strutture sanitarie comasche e lecchesi.
“Negli ultimi due anni oltre 150 persone, su un totale di circa 2’500 dipendenti della sanità pubblica nelle province di Como e Lecco si sono licenziate e si sono impiegate nella Confederazione elvetica”, indica Massimo Coppia, segretario della sanità pubblica del sindacato Uil Lario. Un ammanco che raggiunge circa il 10% “se si aggiungono le attuali difficoltà di reclutamento di personale”.
Ma non si tratta solo di una questione economica ma anche organizzativa che è si è accentuata con la pandemia, durante la quale i reparti dei nosocomi venivano aperti e chiusi a seconda delle ondate dei contagi, sottoponendo così il personale a carichi di lavoro supplementare e stress psicologico. Ma gli equilibri, lamenta Massimo Coppia, erano già più che precari da tempo, a causa di un’inadeguata presa a carico dei pazienti a livello territoriale, in particolare nell’assistenza domiciliare, che ha aumentato la pressione sugli ospedali.
E secondariamente per “i tagli che negli ultimi dieci anni hanno portato a un depauperato del 30% degli organici”, con conseguente mancato turnover del personale, soppressione dei riposi e delle ferie. Non c’è quindi da stupirsi se poi “i concorsi vanno deserti per lo scarso appeal della professione”. A questo va aggiunto “il numero chiuso nelle università che causa gravi carenze di alcune figure, come quella dei medici anestesisti”.
In questo contesto è nata l’idea di incentivare l’accesso alle professioni sanitarie e di prevenire la trasmigrazione nelle strutture ticinesi dei dipendenti con un’indennità straordinaria a carico della Regione, la cui entità non viene formalizzata ma che potrebbe essere, nelle intenzioni dei proponenti, di 500-600 euro al mese.
Non è solo una questione di salario
A spingere molti operatori sanitari verso la Svizzera c’è “sicuramente l’aspetto economico, ma anche di prospettive professionali e rapporti con il personale medico assai differente”, dice Roberta (nome di fantasia, ndr), infermiera piemontese assunta nel 1990 in un ospedale pubblico ticinese. “Appena arrivata in Ticino ho potuto fare una scuola di terapie intensive, cosa che non esisteva dove lavoravo precedentemente in Italia, una delle tante formazioni che oltre ad attribuire ruoli di responsabilità, vengono riconosciuti nell’ambito lavorativo, anche da parte degli stessi medici”.
“Spesso non riesci a dedicare 5 minuti al paziente, che alla fine è solo un numero e una terapia e questo non riuscivo a sopportarlo”.
Roberta, infermiera
Poi, continua Roberta, “con la scusa del blocco delle assunzioni saltano i giorni di libero e si è obbligati a ore di straordinari che se non vengono recuperati entro la fine dell’anno, sono persi”.
Un ulteriore aspetto, legato all’organizzazione concreta del lavoro, riguarda la sfera relazionale. I carichi di lavoro negli ospedali italiani, soprattutto in certi momenti, sono tali per cui viene completamente trascurato “il lato empatico-emotivo” con il paziente. “Spesso non riesci a dedicare 5 minuti al degente, che alla fine è solo un numero e una terapia e questo non riuscivo a sopportarlo”.
Una rischiosa dipendenza dall’estero
Intanto però nel settore sociosanitario ticinese, che occupa in totale quasi 16’000 collaboratori e collaboratrici, 4’300 dipendenti sono frontalieri, vale a dire uno su quattro, concentrati spesso in settori cruciali della sanità cantonale. Una situazione che presenta problematiche anche dal versante opposto, che fanno da contraltare ai vuoti di organico esistenti nelle province di confine. Proprio negli scorsi giorni la Federazione svizzera dei medici (Fmh) ha reso noti i dati del 2021 riguardanti la loro categoria che evidenziano una quota (crescente) del 38,4% di professionisti operanti nella Confederazione laureati in facoltà di medicina straniere (il 51,8% proviene dalla Germania, il 9,2% dall’Italia e il 7,2% dalla Francia).
Una dipendenza dall’estero che preoccupa politici e ambienti sociosanitari e che costituisce una fragilità del sistema elvetico, soprattutto nelle situazioni di emergenza come quella recente causata dalla pandemia, quando è stato ventilato il rischio che Roma precettasse medici e infermieri transfrontalieri assunti nella Confederazione.
Criticità cui si è cercato di ovviare con l’attuazione della citata iniziativa popolare “per cure infermieristiche forti” per quel che concerne il personale paramedico mentre resta aperta la questione dei dottori, che mancano già in diverse specializzazioni anche in Svizzera. Soprattutto dopo che la Germania ha iniziato a rimpinguare le remunerazioni dei suoi medici per evitare la loro fuga verso destinazioni più lucrose. Un esempio che potrebbe essere emulato da altri Stati vicini.
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