È ora che l’Italia abbia una politica per l’italiano
Troppi anglicismi e un mondo politico che fa poco o nulla per tutelare la lingua italiana: una comunità di attivisti cristallizzatasi attorno al portale italofonia.info si batte affinché si dia finalmente vita anche in Italia a un dibattito su una politica linguistica seria ed equilibrata.
L’italiano è una lingua ufficiale federale della Svizzera sancita nella sua Costituzione da ormai quasi due secoli. A livello cantonale, l’articolo 1 della Carta ticinese afferma che “Il Cantone Ticino è una repubblica democratica di cultura e lingua italiane”, e nel suo preambolo si legge che il popolo ticinese è “fedele al compito storico di interpretare la cultura italiana nella Confederazione elvetica”.
Nella Costituzione italiana, al contrario, non esiste alcun articolo che sancisca l’ufficialità della lingua italiana, né che ne parli. L’articolo 6 è l’unico a parlare di lingue, ma si riferisce alla tutela delle minoranze linguistiche, senza interessarsi alla lingua comune di tutta la nazione, l’italiano appunto. La prima legge a parlare dell’italiano come lingua ufficiale della repubblica è lo Statuto autonomo della provincia autonoma di Bolzano del 1972, che nell’affermare la co-ufficialità del tedesco nel territorio provinciale faceva riferimento alla lingua dello Stato.
Questo fatto la dice lunga sulla considerazione che gli Italiani mediamente hanno del proprio idioma. Non stupisce dunque che la classe politica del Bel Paese continui sostanzialmente a ignorare la lingua italiana e tutto ciò che la riguarda. La Repubblica italiana ha leggi specifiche per tutelare il proprio patrimonio artistico, paesaggistico, gastronomico, ma non ha una vera politica linguistica che tuteli e promuova la sua lingua nazionale.
Altri sviluppi
Italiano, una lingua svizzera
Il fatto che ritengo preoccupante è che negli ultimi dieci anni, lo Stato e alcune delle più importanti istituzioni del Paese in campi strategici quali l’alta formazione, la scienza e lo sport, non solo non abbiano fatto nulla a favore della nostra lingua, ma abbiano addirittura intrapreso ciò che sembra a tutti gli effetti una politica attiva contro l’italiano.
Tra le tappe salienti di questo percorso troviamo nel 2012 la decisione del Politecnico di Milano, prestigiosa università pubblica, di rendere l’inglese la “lingua ufficiale dell’ateneo” e di stabilire che tutti i corsi magistrali e di dottorato si tenessero esclusivamente in questa lingua. Davanti alle proteste di un folto gruppo di docenti, l’ateneo, affiancato – precisiamolo – dal Ministero della pubblica istruzione, ha intrapreso le vie legali, pur di riuscire a eliminare l’uso dell’italiano dalle proprie aule. Perdendo in ogni grado di giudizio. Nonostante questo, nel 2020, su 40 corsi magistrali del Politecnico milanese, 27 erano solo in inglese.
Nel 2016 è lo sport il terreno sul quale la lingua di Dante viene umiliata: il CONI decide che il nome ufficiale della squadra olimpica italiana, dai Giochi di Rio 2016 in poi, sarà “Italia Team”.
In campo scientifico, era stato Galileo Galilei a consolidare l’uso del volgare nei trattati, e scienziati del calibro di Albert Einstein conoscevano la nostra lingua, tanto da utilizzarla quando tenevano conferenze scientifiche nella Penisola. La rivista americana Nature ha scelto di creare qualche anno fa una propria co-edizione in italiano, tributo all’enorme contributo degli scienziati nostrani alla comunità internazionale. Nel 2017 invece l’Italia decide che i Prin (Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale) che vogliano ricevere finanziamenti dallo Stato, debbano essere presentati obbligatoriamente in lingua inglese. Per non lasciar dubbi sul fatto che la nostra lingua non debba più occuparsi di scienza, nel 2021 il nuovo Fondo italiano per la scienza (FIS) prevede finanziamenti a ricercatori di università e istituti italiani a patto che le richieste scritte, i progetti, e perfino i colloqui orali nelle fasi successive, siano presentati e sostenuti in inglese “pena l’irricevibilità della domanda”.
Nel frattempo il Parlamento approva leggi zeppe di anglicismi, come quella sul Cashback di Stato o la Stepchild adoption, la compagnia aerea di bandiera passa dal nome Alitalia a ITA Airways, viene lanciata una piattaforma digitale che faccia da “palcoscenico della cultura italiana nel mondo” e la si chiama ITsART, mentre la campagna mondiale di promozione del Paese – o meglio di country branding, per usare le parole del ministro degli esteri Di Maio – è tutta in inglese e ha come nome BeIT.
Quando le leggi diventano Act
I politici usano anglicismi crudi, ossia non adattati, anche nel rivolgersi ai cittadini, e allo stesso modo fanno i giornali e le TV, senza preoccuparsi di essere compresi o meno da chi legge o ascolta. Ed ecco allora che in Italia non esistono più tasse ma solo tax (Sugar Tax, Plastic Tax, Local Tax…), le leggi diventano Act (Jobs Act, Family Act…), nasce il ministero del Welfare, chi si prende cura di un anziano è un caregiver (spesso pronunciato cargiver) e durante la pandemia gli italiani non subiscono un confinamento come i cittadini francesi o spagnoli, ma un lockdown, durante il quale possono lavorare non da casa o da remoto ma bensì in smartworking.
Tutto questo si innesta su una situazione linguistica già poco in salute. Fin dagli anni ‘90 del secolo scorso l’italiano ha iniziato a perdere il filo del mondo che mutava, che si globalizzava, divenendo via via sempre meno capace di restare al passo formando neologismi attraverso il proprio materiale linguistico. Importare termini crudi da una sola lingua, l’inglese, è diventato in breve tempo l’unica strategia. E così se francofoni e ispanofoni hanno ordinateur e mot de passe, computadora e contraseña, gli italofoni hanno solo computer e password. Invece di résaux sociaux e redes sociales, usano i social network. E i tablet, i power bank, le gift card, le carte contactless, l’home banking, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Anglicismi più che raddoppiati
Gli anglicismi aumentano nella loro frequenza, dal linguaggio politico e mediatico si riversano nel vocabolario di tutti. Sui dizionari, negli ultimi trent’anni sono più che raddoppiati (dai 1’600 del 1990 agli oltre 3’500 di oggi) e circa la metà dei neologismi del nuovo millennio è in inglese. La nostra lingua sta perdendo la capacità di evolvere autonomamente (per via endogena), di creare e utilizzare delle metafore proprie. Eppure per illuminare una stanza non accendiamo un “light bulb” e neppure un bulbo luminoso, ma una lampadina, ovvero una “piccola lampada”. Non affettiamo il tomato ma il pomodoro, che in origine arrivò soprattutto nella sua variante di colore giallo e sembrava dunque un piccolo pomo d’oro. Ciò che è sempre stato normale, negli ultimi vent’anni si è trasformato in un tabù.
Fenomeno minimizzato
Di fronte a un fenomeno gigantesco e in evoluzione rapidissima come questo, in Italia non si è sviluppato finora alcun dibattito serio. I linguisti, salvo alcune importanti eccezioni, hanno a lungo minimizzato o addirittura negato il fenomeno. Tra questi l’illustre e compianto Tullio De Mauro, che negli anni ‘80 e ‘90 aveva confutato le testi del collega Arrigo Castellani, che nel suo libro “Morbus anglicus” lanciò per primo l’allarme su questo tema. De Mauro poi cambiò opinione negli ultimi anni della sua vita: celebre il suo articolo del 2016, poco prima della morte, in cui parlava addirittura di uno “tsunami anglicus”.
il portale italofonia.infoCollegamento esterno
Per cercare di far conoscere questi argomenti al di là degli addetti ai lavori e stimolare una discussione intorno alla lingua, nel 2017 ho dato vita al portale Italofonia.info, che si è via via arricchito del contributo di altri collaboratori, tra cui Antonio Zoppetti, autore del saggio “Diciamolo in italiano” dedicato proprio al tema dell’abuso dell’inglese. Grazie a lui abbiamo dato vita a una comunità di attivisti, lanciando alcune iniziative concrete. Nel 2020 una petizione al Presidente della repubblica Mattarella, che ha raccolto in due mesi oltre 4000 firme, nonostante non le sia stato dedicato spazio sui media nazionali italiani. La petizione chiedeva alla massima carica dello stato di sensibilizzare il mondo politico-istituzionale sulla necessità di limitare i termini inglesi in nome della trasparenza verso i cittadini. Nonostante la petizione sia stata ricevuta e protocollata dal Quirinale, non ci è mai pervenuta risposta nel merito della questione.
Domande finora senza risposta
Nel 2021 è stato il nuovo Presidente del consiglio Mario Draghi a riportare l’attenzione sugli anglicismi, con la frase a sorpresa: “Chissà poi perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi?”. Al che abbiamo deciso di lanciare una seconda iniziativa: la richiesta di discutere una proposta di legge “dal basso” così come previsto dall’articolo 50 della Costituzione italiana.
La proposta, presentata da 7 cittadini, tra cui Zoppetti e il sottoscritto, si articola in 11 punti che mirano alla tutela dell’italiano nell’istruzione, nella scienza, nel linguaggio istituzionale e nei contratti di lavoro, oltre che a promuoverne la diffusione nel mondo come strumento di promozione dell’intero sistema Paese.
Si cita anche la Svizzera, Paese dove l’italiano, pur essendo minoritario a livello federale, viene tutelato e promosso più che nella Penisola. Il testo, presentato ai due rami del parlamento il 22 marzo, è stato assegnato rapidamente alle rispettive commissioni Cultura, ma a distanza di un anno giace ancora lì, senza mai essere stato portato in aula da alcun parlamentare.
Nel frattempo, sul portale attivisti.italofonia.info che ospita la petizione di legge, quasi 2000 persone hanno firmato per convincere un deputato o un senatore a portare avanti la proposta. Speriamo che l’interessamento al tema della lingua italiana da parte di esponenti di colore politico diverso – citiamo ad esempio Billi e Rampelli della destra e Schirò e Ciampi del centrosinistra – possa smuovere la situazione nei 12 mesi che mancano alla fine della legislatura.
“Non si tratta di mantenere la lingua pura, ma di tenerla viva e vitale perché possa continuare a raccontare la nostra visione del mondo agli altri popoli”,
Niente purismi, ma sì a una lingua viva e vitale
Noi di Italofonia continueremo a batterci perché nasca un dibattito che porti finalmente l’Italia a dotarsi di una politica linguistica seria ed equilibrata in favore della propria lingua. Perché il tema è importante per tutti i cittadini. C’è chi vuole costruire un’università e un’alta formazione elitarie, sul modello medievale della divisione tra classi colte e classi basse senza accesso all’istruzione. Con l’inglese al posto del latino. Tutti devono invece aver accesso alla conoscenza, tutti devono poter comprendere ciò che accade nella vita politica del Paese, attraverso i giornali e i testi delle leggi.
L’abuso dell’inglese limita tutto questo e costruisce un mondo basato sull’idolatria a senso unico del modello anglo-americano, chiudendo a tutte le altre lingue e culture. L’insegnamento dell’italiano agli stranieri, inoltre, è un tassello fondamentale nell’integrazione. Senza contare le aree italofone fuori d’Italia, piccole ma vive e preziose, come la Svizzera e l’Istria slovena e croata, che inevitabilmente hanno nell’Italia un riferimento culturale fondamentale. L’Italia oggi sembra ignorare e svilire tutto questo.
Prendere posizione dicendo che questa situazione non è sana, significa avere a cuore non solo la nostra cultura, ma il plurilinguismo e il multiculturalismo in generale. Non si tratta di mantenere la lingua pura, ma di tenerla viva e vitale perché possa continuare a raccontare la nostra visione del mondo agli altri popoli. Non vogliamo chiuderci nel nostro orticello, ma continuare a coltivarlo per poi condividere i suoi frutti unici e speciali con il resto del mondo.
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