L’equilibrio perduto tra paesaggio e incendi
Le aree spopolate del Mediterraneo sono anche le più esposte ai mega-incendi che si porta la crisi climatica. Diventa sempre più importante cambiare la nostra relazione con il fuoco per evitare ulteriore distruzione e spopolamento.
“Io non ho perso solo la mia azienda, i miei animali, il mio oliveto. Ho perso il territorio, la storia della mia famiglia”. Giorgio Zampa, agronomo, allevatore e olivicoltore nato e cresciuto a Cuglieri, un piccolo borgo rurale in provincia di Oristano, sintetizza così gli effetti del violento incendio che lo scorso luglio ha colpito le campagne del Montiferru, incenerendo oltre 20’000 ettari di terreno e marcando la storia di questo angolo di Sardegna conteso tra mare e montagna.
È una mattina di primavera quando ci incontriamo e l’aria è fredda. La neve appena caduta mette in risalto gli scheletri degli alberi divorati dalle fiamme, cicatrici di una devastazione che, a quasi un anno di distanza, è ancora ben visibile. “Molte famiglie hanno perso tutte le loro piante”, racconta Zampa. Nel rogo ha perso quasi tutto il suo bestiame e gran parte delle sue piante di ulivo secolari, piantate dagli spagnoli trecento anni fa. “L’incendio ha danneggiato il paesaggio, l’economia e i nostri redditi in un modo incalcolabile”, sostiene Zampa. “Ci vorranno anni, o forse decenni, per riprendersi”.
L’incendio del Montiferru è uno dei tanti che la scorsa estate hanno funestato l’Italia in quello che per l’Italia è stato l’anno più rovente di sempre, con la distruzione del quadruplo della superficie boschiva rispetto alla media del decennio precedente. Le cose non sono andate meglio nel resto d’Europa. Secondo Effis, il sistema informativo europeo per gli incendi forestali, nel 2021 sono andati in fumo oltre un milione di ettari di suolo, il secondo peggior dato mai registrato a livello continentale. A risentirne è stata soprattutto la regione mediterranea, dove vasti roghi si sono verificati in paesi come Turchia, Grecia, Francia, Spagna, Portogallo, Tunisia e Algeria.
Per molti esperti è una tendenza destinata a peggiorare. Il motivo principale, spiega Davide Ascoli, ricercatore in pianificazione forestale e selvicoltura dell’Università di Torino, è l’aumento della frequenza di condizioni meteorologiche che favoriscono gli incendi causato dal cambiamento climatico, e che si va a sommare ad un abbandono decennale delle aree boschive.
In Svizzera la maggior parte degli incendi boschivi si verifica a sud delle Alpi e nella regione alpina. Negli ultimi vent’anni non si è assistito a un inasprimento del fenomeno in termini di frequenza e area bruciata. Anzi, tendenzialmente vi è stato un calo.
Ciò è da imputare alla “sempre maggiore efficacia delle misure di prevenzione, ad esempio il divieto di accendere fuochi all’aperto”, ci spiega Boris Pezzatti, collaboratore scientifico presso l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio WSL di Cadenazzo.
In Ticino, Cantone più colpito dal fenomeno, si è assistito a un forte aumento degli incendi boschivi a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, a causa in particolare dell’abbandono della gestione agricola dei terreni più difficili e delle pratiche agricole tradizionali come la raccolta della lettiera in bosco e il pascolo delle zone aperte e del conseguente aumento della superficie forestale. Tra il 1960 e il 1990 si sono così registrati fino a quasi 180 incendi boschivi all’anno nel Cantone. Negli ultimi dieci anni, invece, il loro numero è sempre stato inferiore ai 50.
Anche i cambiamenti del contesto legale possono avere un forte impatto sul fenomeno come ci ha dimostrato l’entrata in vigore della proibizione di bruciare gli scarti vegetali all’aperto. “Questa misura era diretta prima di tutto contro l’inquinamento atmosferico, ma ha anche avuto come corollario una netta diminuzione del numero di incendi boschivi”, osserva Pezzatti.
Circa il 73% dei roghi registrati in Svizzera sono di origine antropica (causati volontariamente o involontariamente). Anche se questi incendi sono come detto in leggero calo, negli ultimi anni si sono avuti eventi di particolare intensità in periodi normalmente poco toccati dal fenomeno. Per contro quelli di origine naturale (ossia causati da fulmini) sono in aumento. Questo fenomeno è tipico delle regioni alpine e colpisce principalmente i boschi di conifere nelle zone più impervie. L’aumento della frequenza dei periodi di siccità estiva rischia di aggravarlo ulteriormente.
“Negli ultimi decenni, in tutti i paesi del bacino del mediteranno si è registrato un incremento delle temperature medie e si sono allungati sia i periodi di piogge durante gli inverni che quelli di siccità durante le estati, che favoriscono una maggiore crescita delle piante che poi nella stagione secca diventano materiale da combustione”, afferma il ricercatore. “I dati delle proiezioni future indicano un aggravamento dell’impatto di tutti questi fattori negli anni a venire”.
Oltre ad aumentare la probabilità che si verifichino, il cambiamento climatico sta anche modificando il regime dei roghi. Un rapporto pubblicato lo scorso anno dal WWF ha evidenziato come una nuova generazione di incendi sia apparsa nell’Europa mediterranea a partire dal 2017. “Si tratta dei mega incendi”, spiega Ascoli. “Sono eventi che, come nel caso del Montiferru, sono troppo vasti per essere spenti ma possono solo venire arginati con gli interventi aerei e hanno un altissimo impatto sociale, economico e ambientale”.
Il ritorno delle foreste
Il clima che cambia interagisce anche con un’altra tendenza in corso in tutta l’area mediterranea: l’aumento della superficie boschiva. Non più tardi di un secolo fa, le foreste comprendevano circa 3% del suolo europeo. Oggi nella regione mediterranea questa fetta è salita al 21. In Italia l’aumento è stato particolarmente pronunciato: le foreste sono infatti aumentate del 75% rispetto a 80 anni fa e ora coprono il 40% del territorio nazionale.
L’espansione delle foreste è intimamente connessa al progressivo abbandono delle aree rurali, e alle attività agricole a esse connesse. Secondo una stima dell’Istat, sono più di 6’000 i comuni a rischio spopolamento a livello nazionale, soprattutto al sud e nelle isole, in quelle stesse aree dove gli incendi sono aumentati di intensità e frequenza.
“Con lo spopolamento delle zone rurali sono venute meno tutte quelle forme di cura del territorio come il pascolo o la raccolta della legna fondamentali per prevenire l’accumulo piante e rami secchi che possono favorire lo sviluppo incontrollato delle fiamme”, spiega Raffaella Lovreglio, esperta di prevenzione e controllo degli incendi boschivi dell’Università di Sassari.
“Una volta qui i boschi erano gestiti e curati, ma oggi la vegetazione è abbandonata a sé stessa”.
Giorgio Zampa, agronomo e allevatore
A quasi 63 anni, Zampa ha assistito in prima persona alla lenta e inesorabile trasformazione del suo paese, che solo durante lo scorso decennio ha perso quasi il 20% della popolazione. “Una volta qui i boschi erano gestiti e curati, ma oggi la vegetazione è abbandonata a sé stessa.” Secondo Zampa, lo stato d’incuria in cui versano le foreste attorno a Cuglieri ha contribuito in modo decisivo a rendere il rogo della scorsa estate particolarmente distruttivo. “Avevamo già avuto a che fare con incendi di grandi dimensioni nel 1983, e poi nel 1994”, racconta l’allevatore. “Ma il fuoco non era mai arrivato alle case e alle coltivazioni, e con tanta potenza”.
Secondo Valentina Bacciu, ricercatrice del Consiglio nazionale delle ricerche specializzata nello studio della gestione di ecosistemi forestali, se gli incendi cambiano nel comportamento, a cambiare devono essere anche i metodi per affrontarli. “Le strategie attuali sono basate essenzialmente sulla soppressione”, spiega Bacciu. “È un sistema che ha dato e dà i suoi frutti in condizioni meteorologiche più miti, con incendi di bassa o media intensità. Ma in condizioni estreme, i sistemi di lotta attiva – anche i più efficienti – non reggono.”
Per Bacciu è necessario quindi un nuovo approccio basato, da un lato, su politiche e azioni indirizzate alla gestione adattativa delle foreste e, dall’altro, sull’adattamento degli ecosistemi forestali e naturali ai cambiamenti climatici. “Solo coniugando obiettivi a breve termine con quelli a medio-lungo termine saremo in grado di rispondere alle sfide che abbiamo di fronte”, afferma la ricercatrice.
Altri sviluppi
Incendi boschivi, una piaga mondiale che in parte si può prevenire e controllare
Cambio di prospettiva
Tra le attività di prevenzione degli incendi boschivi, una delle tecniche più interessanti è rappresentata dal fuoco prescritto. Si tratta di una strategia di intervento che, attraverso l’innesco volontario di roghi da parte di vigili del fuoco o unità specializzate in ambienti circoscritti e condizioni climatiche adeguate, mira a consumare le biomasse secche che, oltre ad ostacolare il processo di rinnovamento naturale del bosco, forniscono ad un eventuale rogo il carburante necessario per propagarsi velocemente.
“Il fuoco prescritto è una pratica antica, nota ai nostri progenitori, che vedeva non l’acqua, bensì il fuoco, come elemento naturale di contenimento degli incendi”.
Giorgio Vacchiano, ricercatore
“È una pratica antica, nota ai nostri progenitori, che vedeva non l’acqua, bensì il fuoco, come elemento naturale di contenimento degli incendi,” spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in gestione e pianificazione forestale presso l’Università statale di Milano. La tecnica, spiega Vacchiano, è stata messa da parte nel tempo in quanto ritenuta abbastanza pericolosa e richiedente elevate competenze tecniche e professionali.
Ma l’evoluzione della ricerca, per una sorta di nemesi storica, ha portato alla riscoperta di vecchi saperi, arricchendoli ed aggiornandoli di contenuti scientifici e di nuove esperienze. Sono infatti sempre di più le regioni del mondo dove questa pratica sta tornando in auge, dall’Australia agli Stati Uniti, passando per il Canada e il Sudafrica.
In Italia, nonostante il paese sia stato tra i primi in Europa a sperimentare la tecnica dei fuochi prescritti nei primi anni ’80, ottenendo risultati discreti, l’interesse attorno al fuoco prescritto è ancora debole. Ad oggi infatti non vi è alcuna legge che disciplini l’argomento, contrariamente ad altri paesi dell’area mediterranea quali Spagna, Portogallo e Francia, che vantano esperienze molto più avanzate.
Uno dei principali fattori limitanti è la paura nei confronti del fuoco, profondamente radicata nell’opinione pubblica. “Per decenni si è fatto un uso irresponsabile del fuoco, soprattutto a fini agropastorali”, spiega Lovreglio. “Questo ha contribuito a esacerbare la percezione negativa della popolazione nei confronti del fuoco e del suo uso, soprattutto nelle isole e nelle regioni centro meridionali”. A ciò si aggiunge il fatto che, come nel caso di Cuglieri, la maggioranza delle aree forestali appartiene a privati. “Molte di queste terre sono state ereditate e i proprietari odierni, che spesso vivono in zone urbane, non sono incentivati a prendersene cura”.
“È molto probabile che la mancanza di un valore economico dei prodotti forestali prevenga una corretta gestione da parte di proprietari privati e pubblici. E dipendere da sussidi statali limita una gestione complessiva delle foreste”.
Andrea Duane, ricercatrice
“È molto probabile che la mancanza di un valore economico dei prodotti forestali prevenga una corretta gestione da parte di proprietari privati e pubblici. E dipendere da sussidi statali limita una gestione complessiva delle foreste”, dice Andrea Duane, ricercatrice del Centro della scienza e tecnologie forestali della Catalogna, in Spagna. “La biodiversità coesiste con gli incendi, senza dubbio. Anzi, alcune piante e animali ne hanno persino bisogno. Ma è il cambio improvviso di intensità e frequenza degli incendi che li rende dannosi per l’ambiente”.
Il pascolo degli animali nel sottobosco è stata un’attività che in maniera organica ed equilibrata ha contribuito a mantenere sotto controllo l’accumulo di questo carburante naturale per secoli, se non millenni. Ma con il crescente abbandono della pastorizia, questa ha oggi un impatto limitato sull’accumulo di cespugli e fogliame del sottobosco, che si espande nelle aree marginali un tempo coltivate. “Il pastore”, rileva in una nota Nunzio Marcelli, presidente di Appia-Rete dei pastori italianiCollegamento esterno, “presidia e controlla i territori più marginali e l’animale allevato limita la biomassa combustibile. Non è pensabile escludere le greggi dai piani di gestione dei boschi protetti, vietare il pascolamento o includere meccanismi burocratici che penalizzano una gestione efficiente e condivisa fra pastori e forestali.”
Fondi non utilizzati
Eppure ci sarebbero fondi per i proprietari privati e pubblici delle aree forestali per la gestione del sottobosco, ma restano in gran parte inutilizzati. Il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (EAFRD) prevede diverse misure per la prevenzione degli incendi e per il recupero delle zone percorse dal fuoco. Un Collegamento esternorapporto della Corte dei conti europeaCollegamento esterno ha indagato sul fatto che solo metà del budget disponibile per le foreste è stato utilizzato dagli Stati membri nel periodo 2014-2020. Fondi che possono essere impiegati per la creazione di linee tagliafuoco, per il pascolo, per la pulizia del sottobosco e, legge permettendo, per i fuochi prescritti.
Una delle ragioni principali per le scarse richieste, ha constatato il rapporto attraverso sondaggi, è la complessità e la burocrazia del processo per fare domanda. In molti casi si è registrato che i proprietari terrieri preferiscono fare richiesta ai fondi per l’agricoltura poiché più immediati e diretti rispetto a quelli destinati alla gestione forestale, preservazione degli ecosistemi e mitigazione del cambiamento climatico. Ma uno dei nodi fondamentali rimane il fatto che molti proprietari terrieri di zone forestali non vivono più queste terre, e questo abbandono si trasforma in una minaccia per chi invece è restato e che ora deve fare i conti con gli impatti economici e sociali dei mega incendi. Una spirale che rischia concretamente di portare a ulteriore spopolamento.
Considerati gli scenari che si vanno delineando all’orizzonte, sembra sempre più urgente – oltre che inevitabile – un cambio di mentalità e di approccio nei confronti degli incendi. In generale, dice Francisco Moreira, esperto di ecologia forestale dell’Università di Porto, occorre “spostare il focus dalla soppressione del fuoco alla mitigazione, prevenzione e preparazione”. Per questo, aggiunge Moreira, è necessario allontanarsi da una visione totalmente negativa degli incendi, da un approccio allarmistico dei media che arriva esclusivamente a ridosso di avvenimenti devastanti come quelli del Montiferru. Per preservare le foreste, in sintesi, è necessario usare il fuoco a proprio favore, con incendi controllati gestiti da persone competenti, ed evitare così il proliferare di mega incendi nelle foreste mediterranee.
“La mia lecciaia (bosco di lecci, ndr) che ho nel Montiferru era ben tenuta, la tenevo pulita”, dice Giorgio Zampa, come per dire che lui il suo dovere l’ha compiuto, nel suo angolo di foresta. Ma questo sforzo dovrà diventare sistemico per far fronte alle stagioni roventi che ci accompagneranno per periodi sempre più lunghi.
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