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Italia: strage Erba, giudici, per revisione manca novità prova

Keystone-SDA

(Keystone-ATS) La richiesta di revisione presentata da Olindo Romano e Rosa Bazzi, per quanto rituale, non è ammissibile “sotto il duplice profilo della mancanza di novità e della inidoneità a ribaltare il giudizio di penale responsabilità delle prove di cui è chiesta l’ammissione”.

È la conclusione a cui sono giunti i giudici della Corte d’appello di Brescia che hanno giudicato inammissibile l’istanza di revisione della sentenza che condannò la coppia all’ergastolo per la strage di Erba (quattro morti, tra cui un bimbo di due anni, e un ferito gravissimo, l’11 dicembre del 2006).

La richiesta di revisione della sentenza all’ergastolo per Romano e Bazzi presentata dal sostituto procuratore di Milano Cuno Tarfusser è “prima ancora che carente sotto il profilo della novità della prova” inammissibile “per difetto di legittimazione del proponente.

“La richiesta di revisione – scrivono i giudici del Tribunale di Brescia- è stata formulata da un sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Milano privo di delega relativamente alla materia delle revisioni, riservata, secondo il documento organizzativo dell’ufficio, all’avvocato generale, e non assegnatario del fascicolo ed è stata depositata nella cancelleria del Procuratore Generale di Milano, che l’ha trasmessa alla Corte, evidenziando la carenza di legittimazione del proponente, disconoscendone il contenuto e chiedendo che fosse dichiarata inammissibile”.

Per i giudici di Brescia “l’ipotetico movente legato a un regolamento di conti nell’ambito del traffico di sostanze stupefacenti è stato invano approfondito nella prima fase delle indagini e non ha trovato alcun riscontro” da parte della Guardia di Finanza e “non può certo trovare nuova linfa nelle apodittiche affermazioni di Abdi Kais (un tunisino che era stato in carcere con Azouz Marzouz, ndr) e nelle supposizioni degli altri pregiudicati intervistati mentre era in corso l’odierno processo di revisione”.

La Corte bresciana esclude inoltre un “complotto” che avrebbe portato alla fabbricazione di falsità di prove, o meglio della loro formazione. Oltre a ripercorrere la formazione delle prove, i giudici sottolineano che i precedenti gradi di giudizio hanno escluso, per esempio a proposito delle confessioni di Olindo e Rosa “qualsiasi illegittimità nell’operato dei Pubblici Ministeri che raccolsero le confessioni, registrandole”.

Il Tribunale ha anche aggiunto che “poiché una parte delle prove presentate sono rappresentate da interviste, la natura di documenti di tali interviste non vale a conferire loro il rango di prova ammissibile in sede processuale. Diversamente dal testimone escusso in giudizio, il soggetto intervistato non ha l’obbligo di dire la verità e non assume alcun impegno in tal senso. Al contrario è sicuramente condizionale dalla pubblicità che il mezzo garantisce e tende generalmente a compiacere l’intervistatore”.

“Nessun presidio, al di là della deontologia dell’intervistatore, è previsto a tutela della genuinità e libertà delle risposte e della correttezza delle domande che possono essere suggestive, insinuanti e insidiose”. Questa è la conclusione della Corte.

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