Come criptovalute e mafia digitale mettono in crisi la polizia svizzera

Nel libro Mafiadigitale.ch, Francesco Lepori offre una riflessione approfondita sulla straordinaria capacità della mafia di adattarsi alle sfide e ai cambiamenti imposti dalla società digitale e globale. E per la Svizzera, che per quasi cinquant’anni ha minimizzato il fenomeno mafioso, è tempo di agire, in collaborazione con autorità nazionali e internazionali.
Il volume fornisce una visione chiara e dettagliata su come le organizzazioni mafiose abbiano saputo sfruttare le nuove tecnologie per espandere le proprie attività, e in questo contesto, l’autore sollecita la Svizzera – che per decenni ha sottovalutato il fenomeno mafioso – a prendere finalmente provvedimenti, lavorando in collaborazione con le altre autorità nazionali e internazionali.
Francesco Lepori, nato nel 1972, si è laureato in letteratura italiana all’Università di Ginevra, dove nel 1996 ha conseguito anche un diploma di studi superiori.
Giornalista dal 1998, si è specializzato sin dagli inizi in cronaca nera e giudiziaria. Dal 2005 lavora al “Quotidiano” della Radiotelevisione svizzera (RSI), in qualità di redattore, responsabile per la giudiziaria.
Dal gennaio del 2021 è responsabile operativo dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata (O-TiCOCollegamento esterno), di cui ha creato e cura l’archivio. All’Istituto di diritto dell’USI è attivo come collaboratore scientifico.
Dal 2022 è docente esterno al Centro di competenze tributarie e giuridiche della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). Insegna al Master in Diritto Economico e Business Crime.
Nel 2016, con il collega Luca Fasani ha pubblicato il libro “BSI fuori rotta” (Edizioni Casagrande). Nel 2018 “Il Ticino dei colletti sporchi” (Dadò Editore). Nel 2020 “La cronaca giudiziaria ticinese” (Helbing Lichtnenhahn), assieme al professor Davide Cerutti.
Nel libro, recentemente pubblicato da Armando Dadò EditoreCollegamento esterno, il giornalista ticinese e responsabile operativo dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata evidenzia che la lotta contro le mafie è una battaglia che richiede un impegno collettivo e coordinato. Le mafie non temono di correre. Al contrario, accelerano costantemente, sempre pronte a essere un passo avanti rispetto a chi cerca di fermarle. Oggi, prosegue l’autore, hanno intrapreso la via dell’autostrada digitale, e l’unica risposta efficace per contrastarle è costruire una risposta comune, solida e determinata. Ecco l’intervista all’autore del libro.
Tvsvizzera.it: Il titolo del libro è emblematico: Mafiadigitale.ch. Si parla dunque dell’infiltrazione mafiosa in Svizzera.
Francesco Lepori: Mafiadigitale.ch rappresenta un approfondimento sull’impiego delle nuove tecnologie da parte
delle organizzazioni criminali italiane sul suolo svizzero. La peculiarità di questo lavoro sta nel metodo che ho adottato, centrato sull’analisi del materiale giudiziario disponibile. L’approccio documentale è essenziale, soprattutto quando si parla di Svizzera, un paese dove la presenza delle cosche italiane è consolidata da tempo, e lo studio delle carte offre una prova
tangibile di questa radicata infiltrazione.

Come si è evoluto il linguaggio mafioso nell’era delle nuove tecnologie di comunicazione, tradizionalmente caratterizzato da cripticità e omertà?
La tecnologia ha aperto nuove possibilità, a partire dall’utilizzo dei criptofonini, telefoni modificati sia nel software sia nell’hardware che permettono comunicazioni criptate al riparo da intercettazioni. Questi dispositivi sono evoluti nel tempo, passando da modelli base a quelli più sofisticati, mentre le organizzazioni mafiose hanno imparato a usare più piattaforme contemporaneamente per frammentare ulteriormente le informazioni. L’uso di criptofonini è ormai una caratteristica sistematica delle cosche italiane, che sfruttano al massimo le potenzialità offerte dalla crittografia.
Quali sono le principali difficoltà nel perseguire reati mafiosi legati all’uso di piattaforme criptate?
La decriptazione delle chat è una risorsa fondamentale, ma di enorme complessità. Le difficoltà sono molteplici: tecniche, che richiedono mesi di lavoro e collaborazione internazionale, e quantitative, legate alla mole di dati da analizzare. Come ha ricordato Nicoletta Della Valle, ex direttrice della polizia federale, solo il 20% delle piattaforme come SkyEcc è stata esaminata in Svizzera. A ciò si aggiungono le problematiche giuridiche legate alla legittimità delle prove digitali ottenute all’estero: il sistema utilizzato negli altri paesi è compatibile con la nostra legislazione? È un argomento che le difese giustamente non hanno mancato di sollevare e che è tuttora sul tavolo dei vari tribunali. Infine, la contestualizzazione delle chat: tutto sembra chiaro e in un qualche modo già risolto. In realtà non è così. Come ogni elemento d’inchiesta, anche i dati ricavati dalle piattaforme decriptate vanno inseriti in un contesto probatorio più ampio. Non ci sono pistole fumanti, non lo è mai stato il DNA e non lo sono nemmeno le chat.
“Le organizzazioni criminali riescono a muoversi con facilità tra criptovalute e sistemi tradizionali, riciclando denaro illecito attraverso canali virtuali”
Francesco Lepori, autore di Mafiadigitale.ch
Come vengono utilizzati i social media dalle organizzazioni mafiose e, in generale, come si muovono nel mondo digitale?
Col tempo le mafie hanno imparato a fare un uso sempre più accorto e studiato dei social media che ha permesso loro di occupare progressivamente la rete alla stessa stregua di un qualsiasi altro territorio di conquista. E come si occupa la rete? Ostentare potere e ricchezza attraverso simboli tipici dell’estetica criminale: auto lussuose, donne bellissime, locali esclusivi e banconote che volano. Nel mio libro, ho applicato schemi di studio già definiti da altri esperti per analizzare i profili social di mafiosi italiani attivi nel nostro paese. La conclusione è che, purtroppo, questi schemi comportamentali sono emersi chiaramente anche nel contesto svizzero.

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Cosa si intende per “comunicazione aperta” nella mafia e come si concilia con la tradizionale segretezza delle sue operazioni?
La segretezza è sempre stata un pilastro delle mafie, ma quando necessario, le organizzazioni mafiose sanno anche mostrarsi, soprattutto se si muovono all’estero, dove hanno bisogno di tessere contatti per avviare e gestire le loro attività. Come si manifestano? Nel Novecento si rendevano visibili attraverso quei tratti distintivi che il cinema e la letteratura hanno poi consegnato all’immaginario collettivo. Raffigurazioni che, tra l’altro, a loro volta hanno influenzato il comportamento dei mafiosi stessi. Oggi, è spesso il mafioso stesso a scegliersi un palcoscenico, sfruttando i social network per autorappresentarsi.
Comunicazione aperta, segretezza nelle operazioni: una contraddizione in termini?
Non si tratta di una contraddizione. Entrambe le modalità servono a rispondere alle stesse necessità: massimizzare il profitto. A seconda della situazione, le organizzazioni mafiose sanno come alternare l’ostentazione pubblica alla riservatezza, sempre con l’obiettivo di consolidare il loro potere.
“Le organizzazioni mafiose sanno come alternare l’ostentazione pubblica alla riservatezza”
Francesco Lepori, autore di Mafiadigitale.ch
Veniamo al business: in che modo l’integrazione dei cosiddetti “virtual asset” con le piattaforme di pagamento tradizionali sta cambiando il riciclaggio di denaro?
L’integrazione tra il mondo fisico e quello virtuale sta riducendo le distanze, come sottolineato anche dall’Europol. Le organizzazioni criminali riescono a muoversi con facilità tra criptovalute e sistemi tradizionali, riciclando denaro illecito attraverso canali virtuali o addirittura viceversa, quando i proventi di attività illegali online vengono “ripuliti” tramite metodi tradizionali.
Con l’aiuto dei facilitatori. Chi sono e a che cosa servono?
Le competenze dei mafiosi nel corso degli anni sono cresciute anche in ambito tecnologico. Non bisogna però commettere l’errore di attribuire al cosiddetto mafioso 2.0 più capacità di quante in realtà non ne abbia. Lo ricorda molto bene il sociologo Nando Dalla Chiesa nel suo Manifesto dell’Antimafia: il mafioso di oggi non è più quello con la coppola in testa e la lupara in mano. Ma non è neanche un manager in doppiopetto di Piazza Affari. Aggiungerei inoltre che non è neppure un hacker da film sui mafiosi. Soprattutto quando si muovono all’estero resta fondamentale la zona grigia, cioè l’insieme di quei facilitatori, ovvero di quei professionisti che più o meno consapevolmente, accettano di fornire i loro servizi alle organizzazioni criminali. Un tempo si parlava tra virgolette solo di avvocati, di fiduciari e di consulenti bancari. Oggi nella categoria sono entrati a pieno titolo anche gli hacker, gli esperti in informatica.
Parliamo della Svizzera. Perché il fenomeno mafioso è stato sottovalutato in Svizzera per tanti anni e quali sono le conseguenze di questa negligenza?
“Negli anni ’80, le banche affermavano di non essere né poliziotti né spie, e i magistrati che provavano a indagare sulla provenienza sospetta dei fondi venivano considerati come dei nemici della nazione”
Francesco Lepori, autore di Mafiadigitale.ch
In Svizzera, per lungo tempo, l’interesse principale è stato il benessere economico, che ha portato ad accogliere capitali stranieri senza troppe domande. Negli anni Ottanta, le banche affermavano di non essere “né poliziotti né spie”, e i magistrati che provavano a indagare sulla provenienza sospetta dei fondi venivano considerati come dei nemici della piazza finanziaria e in definitiva, addirittura come dei nemici della nazione. Questa negligenza ha consentito la diffusione e il consolidamento delle mafie, rendendo ora molto difficile contrastare il fenomeno, soprattutto nel riciclaggio di denaro: attività commerciali avviate tempo addietro con soldi di origine illecita hanno a loro volta, nel corso degli anni, generato altre attività assolutamente lecite, cosa che rende praticamente impossibile per gli inquirenti il compito di risalire la filiera a ritroso.
In che modo le mafie italiane costituiscono una minaccia sempre più rilevante per la Svizzera e quali fattori tecnologici hanno esacerbato il problema?
Le mafie italiane sono sempre più radicate nell’economia svizzera, in particolare tramite il riciclaggio di denaro. È questo l’aspetto più preoccupante. E la tecnologia gioca un ruolo chiave in tutto questo, sia nell’ambito delle criptovalute sia nelle comunicazioni criptate, che facilitano traffici illeciti come il narcotraffico o il traffico d’armi.

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Perché anche in Svizzera la collaborazione è cruciale nella lotta contro la criminalità mafiosa?
La tecnologia è in continua evoluzione e non conosce confini. Non possiamo credere di poter delegare l’intero compito alle nostre autorità di perseguimento penale. Bisogna agire di concerto. Collaborazione non a caso è il termine che ricorre di più negli studi e nei rapporti che ho avuto modo di esaminare. Cosa significa concretamente? Significa intensificare la cooperazione tra Cantoni, tra Cantoni e Confederazione, tra Confederazione e omologhi esteri, tra autorità penali e autorità amministrative, tra settore pubblico e settore privato, tra esperti e gente comune. Nel libro dico che le mafie hanno ormai imboccato l’autostrada digitale. Ecco, l’unico modo per fermarle è quello di sbarrargliela insieme.

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