Donne vittime e protagoniste delle mafie
La lotta contro le organizzazioni criminali passa anche dal coinvolgimento delle madri. Se ne è discusso in un convegno a Lugano.
Un terzo degli azionisti delle società confiscate per mafia in Italia sono donne. Lo ha recentemente rivelato uno studio del centro di ricerca Transcrime, secondo quanto è stato evidenziato nella tavola rotonda organizzata giovedì dall’Osservatorio ticinese sulla criminalità, sul ruolo dell’universo femminile nelle organizzazioni mafiose.
Un fenomeno, quello della criminalità organizzata che, come ha ribadito Alessandra Cerreti, pubblico ministero della DIA di Milano, è ben presente, con propaggini anche alle nostre latitudini (in particolare la ‘ndrangheta).
“Non c’è inchiesta a Milano” sulle organizzazioni mafiose “che non abbia collegamenti con la Svizzera”, ha affermato la pm, sottolineando in particolare le modalità con cui agiscono le cosche per ripulire i proventi delle loro attività criminali: un reticolo di società transnazionali attraverso cui viene commessa una serie di reati finanziari allo scopo di riciclare denaro.
Il ruolo delle donne
E in questo contesto svolgono un ruolo a volte non secondario, e che si è evoluto nel tempo, anche le donne. Un apporto che però, è stato evidenziato nel corso della discussione, assume sfaccettature differenti, e non è riconducibile in un unico comune denominatore. Anche perché le varie associazioni mafiose hanno strutture diverse ed operano su territori differenti con peculiarità specifiche.
Altri sviluppi
“Liberi di scegliere”, un programma per spezzare l’eredità mafiosa
Tra di esse la ‘ndrangheta si distingue per i vincoli di sangue (“la cosca coincide solitamente con la famiglia”) che coinvolgono necessariamente anche le donne, ha indicato Alessandra Cerreti, e che l’hanno resa fortissima e meno permeabile al fenomeno del pentitismo.
Lo scetticismo degli inquirenti
“Quando arrivai alla Procura di Reggio Calabria nel 2010 i miei colleghi ritenevano che le donne non avessero nessun ruolo” all’interno delle cosche calabresi, note per la loro spiccata impronta patriarcale e maschilista. Venivano inquadrate come “sorelle di omertà”, che non erano formalmente “affiliate” e svolgevano solo opera di supporto ai latitanti: preparazione dei pasti o pulitura dei panni.
Ben diversa la realtà della Camorra che annovera delle capo clan e addirittura “lesbiche” in posizioni di comando, una circostanza inimmaginabile in Cosa Nostra o tra le ‘ndrine. Negli ultimi anni però anche in Calabria e in Sicilia le cose stanno cambiando, ha sottolineato la procuratrice antimafia: 12 delle 78 persone arrestate nell’ambito della maxi inchiesta contro la potente cosca Pesce di Rosarno (RC) sono infatti donne.
Due storie emblematiche
Proprio l’indagine contro il clan della piana di Gioia Tauro ha aperto la stagione delle collaboratrici di giustizia della ‘ndrangheta, che ha avuto per protagonista Giusy Pesce: arrestata nel 2010 con l’accusa di essere la postina del clan, la figlia del boss Salvatore Pesce venne convinta proprio dalla pm Cerreti a collaborare e, grazie alle sue dichiarazioni, è nata due anni dopo l’inchiesta All Inside 2.
Una seconda vicenda emblematica raccontata dalla pm antimafia di Milano riguarda la donna che ha sposato un boss di origini gelesi, legato alla cosca di Busto Arsizio Rinzivillo, che per anni è stata tenuta segregata dal marito e, una volta finito in prigione, dai suoi familiari.
Lei e la figlia hanno subito per un quindicennio pesanti maltrattamenti dall’uomo e, nonostante fosse settentrionale, “in lei c’era l’integrale accettazione del marito violento” e di una cultura fortemente patriarcale e maschilista. La bambina, ha continuato, teneva sotto il cuscino un coltello nel caso in cui avesse dovuto difendere la madre dall’aggressione del marito.
“Abbiamo dovuto trasferire in tre posti diversi madre e figlia perché il boss dal carcere riusciva sempre a individuarle”, ha detto Alessandra Cerreti. La storia ha comunque avuto un lieto fine e la figlia, che in passato ha avuto problemi comportamentali (bullismo attivo), si è diplomata a 18 anni.
Una boss “lombarda”
Sulle commistioni nord-sud e l’evoluzione in corso all’interno delle strutture mafiose la pm ha anche ricordato che recentemente è stata condannata per la prima volta, in primo grado, per appartenenza a organizzazione mafiosa una cittadina lombarda che era a capo della “locale” di Rho, una delle 17 antenne malavitose calabresi che operano nella regione settentrionale.
La sentenza ha evidenziato che la condannata, oltre a gestire il narcotraffico, ha sostituito il capo quando questi è stato catturato dalle forze dell’ordine. Mentre la vicenda di Lea Garofalo, la testimone di giustizia uccisa nel 2009 a Milano da sicari della ‘ndrangheta, è da considerarsi una vicenda interamente calabrese nonostante il tragico epilogo sia avvenuto in Lombardia.
Un servizio del TG dello scorso 25 aprile
Sul versante del contrasto alla criminalità la componente femminile, ha indicato sempre Alessandra Cerreti, sta assumendo un’indubbia rilevanza. Se da un lato Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo sono state uccise per essersi ribellate alle organizzazioni criminali, l’esperienza di Giusy Pesce, che collabora con la giustizia per proteggere “e assicurare un futuro ai figli”, può costituire un grimaldello per “spezzare le catene” in cui sono strette.
Uno strumento per scardinare le mafie?
In questo senso si sta rivelando efficace la prassi inaugurata dal Tribunale di Reggio Calabria che ha decretato la decadenza, in determinate circostanze, della patria potestà genitoriale ai mafiosi. Si è ormai affermato “un protocollo a livello nazionale, approvato dal Governo e dalla stessa Conferenza dei vescovi, e il disegno di legge è in dirittura d’arrivo”, ha segnalato la pm milanese: “Grazie alle donne-madri gli eserciti delle mafie rischiano di ridursi a livello di effettivi”.
Anche se, ha precisato Alessia Truzzolillo, giornalista di Lac News24 e dell’Ansa, le donne, anche in funzioni apicali, ce ne sono. Tra di esse Aurora Spanò, condannata dal Tribunale di Palmi a 25 anni, 7 in più del compagno Giulio Bellocco, che in base all’inchiesta Tramonto gestiva un traffico di usura ed estorsioni condotto della cosca di San Ferdinando (RC).
“Malmenava lei stessa durante le operazioni estorsive e obbligava le detenute a pulire la sua cella”, racconta la cronista. Ora è stata sottoposta al regime carcerario del 41bis. “È una delle due donne che subiscono questa misura restrittiva in Italia”.
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