La vertenza frontalieri all’esame delle urne ticinesi
In un cantone di confine come il Ticino la questione lavoratori frontalieri, su cui alcuni partiti hanno costruito le loro fortune politiche, non poteva non venire evocata nel corso della campagna elettorale in vista del 7 di aprile, data in cui i cittadini rinnoveranno Gran Consiglio e Consiglio di Stato a Bellinzona.
Anche se per la verità l’argomento non ha certo monopolizzato i dibattiti tra le forze politiche, nei quali hanno peraltro fatto fatica ad emergere tematiche forti.
Tornano d’attualità i ristorni
Come da copione comunque è stata ribadita ancora una volta dalle formazioni della destra la richiesta al governo ticinese di bloccare i ristorni, vale a dire la quota del 38,8% delle imposte alla fonte prelevate sulla manodopera transfrontaliera che i cantoni riversano poi ai comuni italiani nelle zone a ridosso del confine a titolo di compensazione finanziaria (l’anno scorso l’ammontare di questa voce inviato a Roma da Bellinzona per il 2017 è stato di 83 milioni di franchi).
Il parlamentare Udc (destra) a Berna Marco Chiesa, particolarmente attivo su questo fronte, negli scorsi giorni ha depositato un’interrogazione Collegamento esterno– analoga a una precedente interpellanzaCollegamento esterno del collega della Lega dei Ticinesi Lorenzo Quadri – in cui chiede lumi al governo federale sul comportamento che vorrà assumere in caso di sospensione dei ristorni da parte di Bellinzona. “La Confederazione è disposta a collaborare col Canton Ticino per mettere pressione sulla controparte al fine di assicurare l’utilizzo di questi importi per progetti di interesse comune?”, scrive il consigliere nazionale luganese.
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Questa drastica misura, già sperimentata nel 2011, vuole porre fine alle tergiversazioni di Roma nel firmare l’accordo raggiunto nel dicembre 2015 sul nuovo regime fiscale dei frontalieri. Un documento che da parte svizzera ha lo scopo dichiarato di porre un argine all’afflusso di lavoratori pendolari lombardi e piemontesi sul mercato ticinese nel quale non sono estranei fenomeni di dumping salariale. Ma da parte della nuova maggioranza a Montecitorio viene osteggiato per l’obiettivo aggravio fiscale, soprattutto per i redditi medio-alti, che produce per questa categoria di dipendenti.
Ad ogni modo lo scorso giugno il governo cantonale si è rifiutato di adottare questa drastica misura e successivamente Berna, in risposta all’atto parlamentare di Lorenzo Quadri (Lega), ha affermato di preferire il dialogo al confronto con Roma. Nulla di nuovo all’orizzonte, verrebbe da dire.
Proposta la denuncia dell’accordo del 1974
A sorprendere è semmai l’aggiunta, nello schieramento anti-frontalieri, del partito liberale radicale (centrodestra) che alla fine del mese di gennaio ha messo a punto una mozioneCollegamento esterno a Bellinzona, sostenuta a livello federale da un atto parlamentareCollegamento esterno promosso dai rappresentanti ticinesi del gruppo Plr alle Camere, per esaminare la possibilità di disdire unilateralmente l’accordo fiscale del 1974 e chiedere compensazioni finanziarie per il Ticino per le perdite subite dalla mancata sottoscrizione della nuova intesa (si stimano 12-15 milioni di minore gettito all’anno per le casse cantonali). Va detto che lo stesso presidente del governo, il leghista Claudio Zali, alcune settimane prima si era espresso in modo analogo.
Sulla possibile disdetta dell’intesa i liberali radicali avevano già promosso una raccolta di firme nel 2014 che era stata però congelata in seguito agli sviluppi delle trattative tra Italia e Svizzera, sfociate poi nella contestata intesa del 2015. Ma la questione è stata rilanciata con l’evidente intento di non lasciare l’iniziativa solo nelle mani di lega e Udc. Anche perché da parte italiana la nuova maggioranza giallo-verde ha imposto uno stop al processo di firma e ratifica parlamentare dell’accordo sui frontalieri, in particolare su iniziativa lo scorso mese di novembre dei deputati pentastellati insubrici Giovanni Currò e Niccolò Invidia nell’ambito del dibattito sulla Legge di bilancio 2018.
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Circostanza che aveva spinto il ministro degli Affari esteri Ignazio Cassis, nell’incontro di gennaio a Lugano con il suo omologo italiano Enzo Moavero Milanesi, a rilanciare la questione, riuscendo però a strappare al suo interlocutore solo la generica promessa di una risposta impegnativa da parte del governo italiano entro la fine della primavera.
Il nodo delle indennità di disoccupazione
Solo in maniera marginale è entrata invece nel dibattito la modifica del Regolamento Ue n. 833 relativo al coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale che prevede il diritto dei frontalieri di percepire le indennità dal sesto mese di disoccupazione nello Stato in cui hanno svolto la loro attività. E le conseguenze finanziarie rischiano di essere pesanti per la Confederazione dove lavorano oltre 314’000 pendolari stranieri (di cui oltre 62’000 in Ticino). Ma sulla questione, che dovrà passare ancora dal parlamento di Strasburgo e dal Consiglio dei ministri Ue, ha avuto solo qualche riverbero negli incontri di partito, Berna potrà dire la sua nell’eventuale negoziazione con Bruxelles.
Da parte della Lega dei ticinesi è stata poi avanzata un paio di settimane fa anche un’iniziativa parlamentare in Gran Consiglio favorevole al prelievo, sempre per ridurre il divario tra retribuzioni e le pressioni sul mercato del lavoro cantonale, dell’1% sui salari lordi dei frontalieri. La trattenuta andrebbe ad alimentare un fondo destinato a favorire l’occupazione di giovani e ultracinquantenni nel cantone italofono. Sull’esito della proposta, così come per le altre enunciate precedentemente, saranno determinanti i numeri che usciranno dalle urne il 7 di aprile.
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