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Lavoratori e lavoratrici frontalieri uniti in piazza: “No alla tassa sulla salute”

Lavoratori e lavoratrici frontalieri in protesta a Como.
Lavoratori e lavoratrici frontalieri in protesta a Como. ©tvsvizzera.it

A Como le frontaliere e i frontalieri italiani si sono riuniti per la prima volta in una protesta guidata dai sindacati italiani ed elvetici.

Erano circa 300 le lavoratrici e i lavoratori frontalieri riunitisi sotto il palazzo della Regione Lombardia in via Luigi Einaudi a Como questa mattina, 25 maggio. Tutti insieme per far valere le loro rivendicazioni in un presidio senza precedenti nella storia del lavoro frontaliero.

Accompagnati da tutti i sei sindacati che li rappresentano sia in Italia – CGIL, CISL e UIL Frontalieri – che in Svizzera – UNIA, OCST, SYNA – i lavoratori hanno chiesto a gran voce che venga rispettato il Nuovo accordo fiscale dei frontalieriCollegamento esterno approvato lo scorso 17 luglio ed entrato in vigore il primo gennaio 2024. E che soprattutto si eviti di chiedere una ulteriore tassa per la sanità alle lavoratrici e ai lavoratori frontalieri italiani.

Sì, perché – denunciano i sindacati – con l’approvazione della legge di bilancio del 2024 – il Governo italiano ha introdotto una nuova tassa sui lavoratori frontalieri italiani che lavorano in Svizzera.

Il servizio del Quotidiano della RSI:

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“È una tassa ingiusta dato che i lavoratori frontalieri italiani vengono già tassati in Svizzera e contribuiscono a pagare i ristorni che i Cantoni versano allo stato italiano (che poi vengono ripartiti ai comuni di fascia)”, spiega a tvsvizzera.it Pancrazio Raimondo, segretario generale UIL Frontalieri alla quale risultano iscritti 14’660 lavoratori.

“Questo provvedimento è in contraddizione con quello che il ministero della Salute italiano ha sempre sostenuto e messo nero su bianco con la circolare dell’8 marzo 2016 indirizzata agli assessorati regionali alla sanità”.

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Contro la tassa anche Giuseppe Augurusa della CGIL. “Quella sulla salute è una tassa inefficace che non fermerà il personale sanitario. Quelli che già lavorano come frontalieri sono arrivati al paradosso che preferiscono abbandonare il permesso G e optare per il permesso B utilizzando il trasferimento per non essere vessati. Una tassa incostituzionale che viola il principio dell’universalità del trattamento sanitario, viola il principio degli obblighi internazionali e il principio della doppia imposizione tassando nuovamente quello che è già tassato alla fonte”, aggiunge.

Meglio un’assicurazione privata in Svizzera

La tassa desta preoccupazione nei 93’000 lavoratori frontalieri italiani che ogni giorno si recano nei cantoni svizzeri. “La tassa che propone Roma, tra l’altro, non prevede la possibilità di detrarre dalle nostre tasse le spese mediche che sosteniamo in Italia come fanno tutti gli altri lavoratori”, racconta eco Elisabetta Galli impiegata in una casa di spedizioni di Chiasso.

E c’è chi pensa ad altre soluzioni. “Noi già paghiamo l’imposta alla fonte e, se Roma deve prendersi un compenso, lo deve attingere da lì e dai ristorni. Io sto pensando di farmi una cassa malati in Svizzera. Perché, se devo pagare, mi affido almeno a una sanità privata che so che funziona”, racconta Elisa Z. consulente assicurativa e lavoratrice frontaliera da diversi anni.

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Personale medico.

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Non solo tassa sulla salute

A richiamare in piazza le lavoratrici, i lavoratori e i sindacati anche altre questioni che li preoccupano. Come quella sulla definizione degli elenchi dei Comuni di frontiera. Secondo i sindacati sono 518 e non, come sostiene il Ticino, poco più di 400 dato che, a questi, devono sommarsi anche i comuni della provincia di Sondrio i cui lavoratori frontalieri pagano regolarmente le tasse in Svizzera.

E anche comuni come quello di Misinto in provincia di Monza e Brianza che è distante, secondo le rilevazioni dell’Istituto geografico militare di Firenze, 17’088 metri dal confine italo-svizzero di Pedrinate e che quindi rientrano nella fascia dei 20 chilometri.

“Abbiamo scritto a tutti i nostri parlamentari affinché facciano convocare la commissione mista italo-svizzera per sciogliere questo nodo anche perché c’è un accordo che riconosce che i comuni di frontiera sono 518”, commenta Massimo Mastromarino, presidente dell’Associazione Italiana Comuni di Frontiera (A.C.I.F.).

Il telelavoro al 25% non convince

Sul tavolo anche la questione del telelavoro sulla quale Berna e Roma hanno raggiunto un accordo che consente a lavoratori e lavoratrici italiani impiegati in Svizzera di svolgere fino a un massimo del 25% della loro attività lavorativa in home office. Percentuale che i sindacati vorrebbero portare al 40%.

“La situazione del lavoro è cambiata negli ultimi anni soprattutto dopo il Covid. Noi abbiamo chiesto il riesame di questo provvedimento per adeguarlo a quello in vigore tra Francia e Svizzera in base al quale i lavoratori frontalieri francesi possono svolgere il telelavoro nella misura del 40%”, aggiunge ancora Pancrazio Raimondo.

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Sussidio di disoccupazione e adeguamento salariale vere priorità

Dal palco molti gli interventi che si sono susseguiti di rappresentanti delle sigle sindacali ma anche di lavoratori che hanno sottolineato come siano ancora irrisolti il nodo della indennità di disoccupazione che deve essere allineata a quella svizzera e la questione del dumping salariale.

“Per noi il dumping è una priorità assoluta. Se un lavoratore frontaliero italiano guadagna il 20% in meno in proporzione di un suo collega ticinese (che a sua volta guadagna il 23% in meno di media rispetto a un lavoratore svizzero) dimostra l’uso che il padronato fa della frontiera e che, a fare dumping, è il datore di lavoro che sfrutta le differenze oggettive di potere d’acquisto e costo della vita che ci sono tra Ticino e l’Italia”, spiega a tvsvizzera.it Giangiorgio Gargantini segretario regionale UNIA Ticino.

Che aggiunge: “Le stesse differenze che però persistono anche tra svizzera francese e Francia e tra Svizzera tedesca e Germania. Nella zona nord-ovest lo stipendio dei lavoratori frontalieri tedeschi è addirittura più alto di quelli svizzeri e là la concorrenza non si basa sullo stato di necessità ma sulla qualità del lavoro. Noi – conclude – continueremo a portare avanti le nostre lotte attraverso i contratti collettivi che assicurano pari diritti a tutti e alla lotta per l’innalzamento del salario minimo cantonale”.

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