Troppe tasse? È una questione di percezione
Come gli Stati sfruttano gli strumenti della psicologia fiscale per rendere meno percettibile e più tollerabile il pagamento di tasse e imposte
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Troppe tasse? È questione di percezione
“Sarei contento di pagare, se lo Stato mi rendesse servizi adeguati a quel che pago”. È commento ricorrente, anche tra i nostri lettori, quando si parla di tasse e imposte.
In realtà, il bilancio costi-benefici è solo uno dei fattori che contano, nel determinare la fedeltà fiscale del contribuente e il suo grado di accettazione delle tasse. Segnatamente, ci spiega Luigi Ferrari, professore di psicologia delle condotte finanziarie all’Università di Milano-Bicocca, entrano in gioco la percezione e la tollerabilità.
Pensiamo al processo di compravendita di una casa, o a chi apre un’attività in proprio: ogni fase prevede il pagamento di uno o più tributi. “Non sarebbe più semplice un’unica imposta?”, ci chiediamo.
Più semplice, forse sì. Ma fin dagli esordi della psicologia fiscale, rileva Ferrari, gli studi hanno osservato che agganciare a un tributo principale (più grande) altre tasse più piccole, abbassa la percezione di queste ultime; talvolta le fa passare inosservate.
La miriade di imposte, più o meno incidenti, con le quali siamo confrontati non è quindi del tutto casuale. Piuttosto, è una strategia. Una tassa unica di equivalente importo creerebbe più avversione verso il Fisco.
Altro “accorgimento”, è la concomitanza di una tassa o imposta con un evento nella vita del contribuente. Allevia il pagamento del tributo. Può trattarsi di un evento positivo (il professore porta l’esempio dell’acquisto di un’automobile) ma anche negativo, come un lutto: il dolore per la perdita di una persona cara non farà sentire il peso di un’eventuale tassa di successione.
“Potente strumento” è quello della tassazione alla fonte, che non a caso in Italia è applicata al reddito dei lavoratori dipendenti. “Generalmente”, osserva Ferrari, “in busta paga il carico fiscale è ben indicato, ma è abitudine ignorare questa parte e guardare il netto”.
Ancor meno percettibili sono le imposte indirette, in particolare le accise come quelle che gravano sui combustibili, ma in parte anche l’IVA, che finché è compresa nel prezzo difficilmente riceve attenzione. Possiamo allora dire che il Paese ideale è quello che applica solo imposte sui consumi?
“Dal punto di vista percettivo sì”, risponde il professore, “ma con sole imposte indirette sui consumi i ceti meno abbienti sono particolarmente tartassati“. Si darebbe dunque vita a un regime fiscale “al contrario”, rispetto alla capacità contributiva.
Un appunto sulla democrazia diretta. La possibilità per il cittadino di prendere parte al processo decisionale, aumenta la cosiddetta compliance. Punto forte, più che la partecipazione in sé, è il fatto che quando si vota su una tassa o imposta se ne decide anche l’impiego.
Un “principio molto saldo” della psicologia fiscale, sottolinea Ferrari, è che “se il tributo è finalizzato a uno scopo riconosciuto come socialmente utile, è anche più tollerato“
Ma cosa dire dell’evasione? Se gli Stati si servono degli strumenti della psicologia fiscale, perché non sempre riescono a debellare l’evasione?
Conoscere le cause, ci fa capire il professore, non significa riuscire a eliminarle. “Intanto”, dice, “i paesi hanno una loro storia fiscale“. In Italia, ad esempio, i contribuenti si sono dovuti spesso difendere da un Fisco troppo pesante, e “questa avversione rimane profondamente nella cultura. E poi non va dimenticato il carico fiscale, che se è troppo elevato ha la sua importanza”.
Luigi Ferrari è professore di psicologia economica e del lavoro e psicologia delle condotte finanziarie all’Università di Milano-Bicocca. Insieme a Salvatore Randisi, ha firmato nel 2011 ‘Psicologia fiscale – Illusioni e decisioni dei contribuenti’ (Raffaello Cortina editore). La sua ultima pubblicazione è ‘Alle fonti del kafkiano – Lavoro e individualismo in Franz Kafka’ (Vicolo del Pavone, 2014).
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