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A Roma la pax mafiosa si è infranta

panchina ricoperta con sciarpe e un mazzo di fiori
La carriera criminale di Fabrizio Piscitelli - "Diabolik" - è finita su questa panchina di un parco romano. Keystone / Claudio Peri

L'omicidio di Fabrizio Piscitelli e il video di Fabio Gaudenzi consacrano la fine dell'autorità di Massimo Carminati nel mondo della malavita della capitale. Un mondo nel quale si sta ridisegnando la mappa delle gerarchie criminali.

“Roma è il futuro”, sottolineava qualche anno fa un boss della ‘ndrangheta. Una facile profezia trasformata in realtà. La Capitale città aperta alle mafie, posto ideale per riciclare e arricchirsi, affamata di droga con oltre cento piazze di spaccio, crocevia dello smistamento di carichi.

Un banchetto succulento in cui tutti possono fare affari, pur di non pestarsi i piedi. Inutile sporcarla con il sangue, meglio privilegiare il business. Oggi però la pax mafiosa si è infranta ed è sempre più complesso tenere in riga gli appetiti.

Si sono rotti gli equilibri, i mediatori che garantivano alle organizzazioni di cooperare mettendo fine alle controversie con la loro autorevolezza sono finiti in carcere, i vuoti creati dalle retate offrono spazi da conquistare armi in mano. I conti si regolano con il piombo e i primi a pagarne le conseguenze sono gli orfani di Massimo Carminati.

Un punto di non ritorno

All’alba della sentenza della Corte di Cassazione che stabilirà definitivamente se quella del “cecato” sia stata mafia, l’esecuzione di Fabrizio Piscitelli e i video nel tinello di casa brandendo una 357 Magnum di Fabio Gaudenzi marcano un punto di non ritorno. Consacrano la fine dell’autorità di Carminati e la consapevolezza dei suoi di contare sempre meno.

Piscitelli e Gaudenzi sono espressione del sodalizio del “re nero” e del legame profondo tra fascisti, criminalità e mondo delle curve. La domenica allo stadio contrapposti, l’uno ultras della Lazio e l’altro della Roma, e durante la settimana pronti a cooperare.

Un legame irrobustito dalla militanza, tanto che Gaudenzi se ne vanta ancora esibendo, durante la sua performance con passamontagna e armi in pugno, un poster ingiallito del disciolto gruppo ultras della Roma, di ispirazione neofascista, ‘Opposta fazione’.

La manovalanza da stadio

“Ho portato quelli della politica dentro lo stadio per creare da lì il gruppo…Tanto per non farsi mancare nulla…Un bel covo di criminali”, raccontava ai tempi del regno Carminati attribuendosi il merito di reclutare manovalanza.

“Ho portato quelli della politica dentro lo stadio per creare da lì il gruppo…Tanto per non farsi mancare nulla…Un bel covo di criminali”

E tra i curvaroli della prima ora c’è anche Riccardo Brugia, il braccio destro del “cecato”: “Stiamo insieme da 25 anni…lui è uno dei più grossi rapinatori di Roma”.

Ragazzi attivati alla politica di destra, transitati dalla curva e finiti a fare rapine e spacciare. Come Piscitelli, il Diabolik capo storico degli Irriducibili della Lazio, alla testa di una “batteria” con uno stuolo di picchiatori albanesi come Orial Kolaj, “il pugile” già campione italiano dei medio massimi, Yuri Shelever e Riccardino al secolo Arben Zogu.

“Gente cattiva, non vi rendete conto”

Una batteria insediatasi nella zona di Ponte Milvio dove ‘I fascisti di Roma Nord’, a dispetto di quanto professano, si sono messi a fare soldi con il traffico di droga.

Diabolik e i suoi lavoravano al servizio dei fratelli Salvatore e Genny Esposito, legati al re della camorra Michele Senese e capaci di accordarsi anche con la ‘ndrangheta. Quella di Diabolik è stata una rapida ascesa: “Ha fatto una scalata pazzesca, controlla Ponte Milvio con due albanesi e i napoletani, gente cattiva…. non vi rendete conto”, constatavano due pregiudicati intercettati nel 2012.

Droga e fiumi di capitali reinvestiti che gli hanno consentito di avere il controllo di diversi locali della movida frequentati dalla Roma bene, proprio lì tra i lucchetti dell’amore dove già insistevano gli interessi di Carminati e di un altro pezzo da novanta, Giovanni De Carlo.

Diabolik è finito ammazzato un mese fa, in un pomeriggio d’estate, su una panchina nel Parco degli Acquedotti, nella zona controllata dagli uomini di Senese. Gli albanesi non erano più i suoi guardaspalle e s’era dovuto affidare alla protezione di un cubano.

Un tempo che sta per finire

I suoi giorni sono terminati così, con un colpo alla nuca sparato da un finto corridore. Un’imboscata determinata da uno scontro probabilmente legato al controllo del traffico degli stupefacenti, ramo nel quale si era ritagliato un ruolo importante e che forse gli stava già stretto. Ucciso come un boss e celebrato poi come un martire dagli ultras. Con tanto di funerali di beatificazione e coreografie allo stadio Olimpico di Roma e al Meazza di Milano.

Gaudenzi dice di sapere chi sono i mandanti di quell’omicidio e vuol parlare, convinto che anche per lui il tempo stia per finire. Battezzato “Rommel”, un passato militante nel ‘Movimento politico occidentale’ di Maurizio Boccacci e negli assalti alle banche, fu coinvolto nel 1994 nel colpo alla Banca commerciale che portò alla morte di Elio “Kapplerino” Di Scala e di una guardia giurata. Ferito gravemente, poi condannato a 21 anni per omicidio doloso e rapina, appena esce dal carcere si riavvicina al boss Carminati con cui ha fatto l’apprendistato nei Nuclei Armati Rivoluzionari.

Inizia a curarne gli affari immobiliari e a indirizzarlo verso alcuni investimenti in oro e preziosi. Come quello con il camerata Filippo Maria Macchi, a cui ora giura odio e vendetta in uno dei suoi video. Perché quell’operazione non finisce bene, Macchi non restituisce i soldi a tassi usurai di oltre il 400% e Gaudenzi ha paura del “gruppo elitario di estrema destra” di cui dice di far parte: “Filì io devo pagà, questi mi ammazzano…”. È il potere dell’intimidazione mafiosa, quello che fa sì che Macchi chiamato a testimoniare durante il processo Mafia Capitale, insceni persino la morte di un parente pur di non presentarsi davanti al ‘re nero’. Un potere che terrorizza e mette pace: “Co noi ce vanno d’accordo tutti”, ricordava Gaudenzi parlando proprio degli albanesi di Ponte Milvio.

Sono saltate alleanze e mediazioni

Oggi invece gli assetti sono cambiati e a Gaudenzi non resta che tentar di rivendicare la purezza nera del tempo che fu. Vorrebbe “essere processato per banda armata, come dovrebbero esserlo Carminati e Brugia. Non siamo mafiosi ma fascisti… La mafia e la droga ci fanno schifo”. È la stessa strategia difensiva che rivendica da sempre Carminati.

Gaudenzi sceglie di consegnarsi alle forze dell’ordine, con un paio d’armi da guerra pur di salvarsi. Si sente in pericolo e il carcere è solo un passaggio. Oggi inizia per lui il percorso più difficile: confrontarsi con la Direzione distrettuale antimafia della procura di Roma. Quella che ha contestato l’accusa di mafia al suo camerata Carminati. Dovrà dire tutto quello che sa per meritare il diritto a essere collaboratore e sopravvivere a “infami” e nemici.

E intanto resta un’unica certezza: a Roma sono saltate alleanze e mediazioni e si potrebbe ridisegnare una nuova mappa delle gerarchie criminali con l’esuberanza degli albanesi nell’usare armi, l’esercito delle seconde generazioni pronto a sferrare i colpi necessari e la forza della ‘ndrangheta superpotenza del traffico di droga che nella Capitale ha messo radici e si fa sempre più padrona.

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