L’intelligenza artificiale, un rimedio contro le infiltrazioni mafiose
Le organizzazioni criminali italiane devono fare i conti con sistemi predittivi, in grado di scrutare le loro finanze. Uno di questi algoritmi è stato sviluppato da un gruppo di ricerca dell'Università di Padova e suscita interesse anche in Svizzera.
Sono quasi 10’000 le imprese italiane controllate dalle mafie, più della metà delle quali nelle regioni confinanti con la Svizzera. Senza contare quelle che non hanno l’obbligo di presentare i bilanci o i cui legami con la criminalità organizzata non sono individuabili. Solo in Veneto, tra il 5% e il 7% delle aziende sono “contaminate” e operano in settori notoriamente ad alto rischio come l’edilizia, l’immobiliare, il manifatturiero e la gestione dei rifiuti.
Questi dati sono il risultato di un lungo lavoro di ricerca avviato nel 2014 da Antonio Parbonetti, professore di economia aziendale all’Università di Padova.
Parbonetti e il suo gruppo hanno analizzato centinaia di condanne definitive per appartenenza mafiosa emesse nel nord e nel centro Italia. Il loro studio è consistito anche nel determinare se le persone condannate erano, ad esempio, azioniste o dirigenti di una o più società. Il gruppo di ricerca ha così creato uno strumento predittivo in grado di ” di identificare, in termini di rischio, la probabilità che un’azienda sia legata a una mafia”, afferma Antonio Parbonetti, sottolineando che lo strumento non fornisce però né certezza né prova giuridica e che l’ultima parola spetta ai tribunali.
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Individuare modelli contabili delle imprese criminali
Il sistema che si basa sull’intelligenza artificiale (IA) è alimentato costantemente con dati finanziari di aziende italiane. Questo consente di addestrare l’algoritmo a individuare modelli contabili comuni alle imprese criminali. Quali sono gli indicatori di un’anomalia? Un aumento improvviso del fatturato o un giro d’affari troppo elevato rispetto al numero di dipendenti, un direttore troppo giovane, degli amministratori legati ad aziende fallite o radiate. L’obiettivo è fornire agli operatori economici un indicatore del “grado di mafiosità” di un potenziale partner, cliente o fornitore, e avviare ulteriori controlli se la soglia di allarme è elevata. Si tratta di un processo simile a quello del Know Your Customer (KYC, conosci il tuo cliente) utilizzato dalle banche per verificare l’identità della clientela e ridurre il rischio finanziario e di reputazione.
Data la loro natura sensibile, i modelli e i dati non sono in libero accesso. Tuttavia, dal 2021 l’algoritmo è commercializzato su licenza da un’impresa spin-off dell’università, Rozès Intelligence. La maggior parte della clientela – la cui identità è riservata – è italiana. Ma vi sono anche diverse aziende straniere, tra cui un importante gruppo svizzero, che utilizzano questo algoritmo.
Il ricercatore e il suo team hanno optato per un modello molto preciso: quando lo strumento genera un segnale di rischio, questo deve essere preso in considerazione, anche se ciò non significa che tutte le marce vengono individuate. Infatti, i falsi negativi e positivi sono uno dei limiti di questo tipo di algoritmo, che è anche incapace di prevedere il comportamento umano.
Quanto vanno strette le maglie?
Bisognerebbe allargare o restringere le maglie? Simon Baechler, capo della polizia giudiziaria di Neuchâtel, spiega che questa è la sfida per tutti i sistemi, non solo per l’IA: “Bisogna trovare il giusto equilibrio tra il rischio di perdere qualcosa che avrebbe dovuto essere rilevato, il falso negativo, e il rischio di un falso allarme, il falso positivo, che non vale la pena di esaminare”. Molto dipende dalla fase in cui si trova la procedura penale: ai suoi inizi, ad esempio, bisogna soprattutto evitare di mancare dei rilevamenti.
La polizia utilizza da tempo strumenti tecnologici, come i sistemi per confrontare le impronte digitali: “È un sistema che padroneggiamo e di cui ci fidiamo”, rileva Simon Baechler, “e da cui ci si può ispirare per utilizzare gli strumenti che derivano dall’IA, senza affidarsi completamente alla macchina”.
“Avrei paura di un sistema che decide da solo se un’azienda è mafiosa o meno – prosegue il poliziotto. Se un sistema di IA alimenta le riflessioni di chi indaga o degli esperti, va benissimo, ma se prende una decisione con ripercussioni importanti, è molto più rischioso e problematico”. Questi strumenti – prosegue – sono particolarmente interessanti perché permettono di rilevare segnali deboli, che l’essere umano a volte non riesce a percepire.
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Una mafia “evanescente”
L’IA si iscrive in un contesto criminale sempre più complesso e opaco. Il colonnello Paolo Storoni, responsabile delle relazioni internazionali della DIA (Direzione antimafia italiana), descrive una mafia “evanescente, che non crea allarme sociale, che va intesa in termini di guerriglia, di movimenti fluidi e di mimetismo”. Il mafioso “moderno” prospera sul mercato e diversifica i suoi “investimenti” comportandosi come un normale imprenditore ed è quindi invisibile ma non per questo meno pericoloso. La differenza è che le sue attività legali sono affiancate da una serie di attività illecite.
Paolo Storoni mette in guardia dalla presenza di certe imprese “migranti”: “Attenzione alle imprese edili calabresi che si insediano in Svizzera. Stanno lasciando l’Italia perché i controlli e i certificati antimafia rendono loro la vita sempre più difficile. Fate attenzione e fate i dovuti controlli se avete a che fare con soggetti provenienti da regioni ad alto rischio – Calabria, Sicilia, Campania – ma nel contesto svizzero, sottolineo la Calabria. Questo non vuol dire che tutti gli Italiani sono mafiosi. È però opportuno fare approfondimenti quando si iniziano relazioni economiche con queste zone o con imprenditori provenienti da esse”.
Qualunque siano i mezzi a disposizione per combattere le mafie, la trasformazione sociologica e tecnologica delle organizzazioni criminali implica, da parte delle forze dell’ordine e della magistratura, “un cambiamento di pensiero, di strategia e di preparazione in termini di cultura professionale”. Anche se gli atteggiamenti stanno cambiando, così come la cooperazione tra le forze di polizia, ma lo scambio di informazioni è ancora lento e i processi troppo macchinosi.
Il colonnello Storoni ricorda che, quando si tratta di procedimenti contro le mafie, “le polizie federali e cantonali devono lavorare in sinergia con gli investigatori italiani, aprire gli occhi e sviluppare lo scambio di informazioni. Se si lavora in modo isolato, alcuni soggetti saranno sempre imprenditori rispettosi della legge e difficilmente attaccabili”.
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