No alla revisione del processo. Contrada: “mi batterò finché avrò vita”
L'ex funzionario del Sisde, condannato per associazione mafiosa, continua a proclamarsi innocente e ne ha per tutti
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Bruno Contrada non ci sta
La Corte d’Appello di Caltanissetta ha respinto la richiesta di revisione del processo all’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, 84 anni, già condannato in via definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Il sostituto procuratore generale Fabio D’Anna aveva chiesto ai giudici di rigettare la richiesta di revisione, presentata dagli avvocati difensori Giuseppe Lipera, Massimiliano Bellini e Grazia Coco. I legali di Contrada, nell’insistere nella richiesta, hanno prodotto la sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il loro assistito non poteva essere condannato per concorso esterno in quanto si tratta di un’accusa non prevista come reato nel periodo contestato all’ex funzionario.
Bruno Contrada non ha partecipato all’udienza, ma la nostra Raffaella Fanelli l’ha intervistato solo pochi giorni fa.
“Mi vogliono annientare”
“Qualcun altro che avesse interesse o desiderio di colpirmi o di annientarmi o di eliminarmi dalla scena… dal campo della lotta alla mafia indubbiamente c’è…”. Non c’era. Ma c’è… Bruno Contrada usa il presente per accusare chi 23 anni fa avrebbe, a suo dire, reclutato e imbeccato i pentiti che in aula, con le loro dichiarazioni, lo accusarono fino alla condanna. “Tutti assassini e falsi collaboratori pronti a calunniarmi per vendetta, come nel caso di Gaspare Mutolo, o per soldi e sconti di pena”. L’ex superpoliziotto ha 84 anni, vive in una casa popolare di Palermo in un quartiere dove la mafia c’è ancora. “Perché la mafia non è Matteo Messina Denaro. Ci sono i giovani rampolli, gli eredi di famiglie che non hanno mai lasciato questa città, nonostante siano stati arrestati i capi storici”. Ma in carcere, con l’accusa di essere stato a disposizione di Cosa Nostra c’è finito pure Bruno Contrada, nel lontano 1992, per ordine della procura di Palermo. Anche se l’ex funzionario del Sisde – i servizi segreti italiani prima che si chiamassero Aisi – grida al complotto. Ma i retroscena di quella congiura ordita contro di lui 23 anni fa così come i nomi e i cognomi dei congiurati preferisce svelarli a telecamera spenta: “Sto già lottando per dimostrare la mia innocenza. Non voglio aprire altri fronti. Arriverebbero solo querele. La verità non interessa a nessuno… Sono stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma io ho inseguito, stanato e arrestato i mafiosi. Nessuno si è mai chiesto in questi anni perché i pentiti mi accusarono… chi li imbeccò? A chi serviva farmi fuori?”. Risposte che potrebbero arrivare dal processo di revisione in corso a Caltanissetta. Forse. O forse no… Chi, stando a Contrada, avrebbe manovrato pentiti e accuse oggi sarebbe ai vertici dopo una carriera folgorante “Mi arrestarono la vigilia di Natale del ’92, alle 7 del mattino. Avevo 62 anni. Sono rimasto detenuto per due anni e sette mesi in attesa di un processo, in attesa che assoldassero i pentiti. Per me ci sono stati carcere e processi per lui elogi e carriera”. Lui. Un uomo solo dietro la vorticosa caduta di Contrada eppure furono 17 i pentiti che l’accusarono di essersi venduto alla mafia… di aver addirittura fatto scappare Totò Riina… “Ho conosciuto un solo vero pentito di cui nel lontano 30 marzo del 1973 raccolsi le dichiarazioni. Era Leonardo Vitale. Si presentò alla squadra mobile dicendo che si era pentito di tutti i delitti che aveva commesso e che intendeva espiare i suoi peccati, prima davanti agli uomini e poi davanti a Dio… fu ucciso 10 anni dopo”.
“Potevamo fermare Riina molto tempo prima”
Leonardo Vitale fu il primo a parlare di Totò Riina, di Vito Ciancimino e di una “Commissione” regionale descrivendo anche i riti di iniziazione di Cosa Nostra. “Raccolsi le sue dichiarazioni ma i giudici preferirono far passare Vitale per pazzo. Se mi avessero dato ascolto la mafia poteva essere sconfitta già allora… Mutolo mi odia. E mi temeva. Sapeva che avevo dato ordine ai miei uomini di sparargli. Di ucciderlo, per quello che aveva fatto a un giovane agente di polizia, Gaetano Cappiello… Gaetano mi morì fra le braccia. E i giudici hanno creduto e graziato il suo assassino… Gaspare Mutolo in aula disse di non ricordare neanche il numero delle persone che aveva ucciso distinguendole da chi aveva strangolato con le sue stesse mani…”. Bruno Contrada è un fiume in piena… accusa uno ad uno i pentiti che lo Stato italiano “invece di arrestare, pagò”. Come Rosario Spatola. “Disse di avermi visto pranzare con Rosario Riccobono nella saletta riservata di un noto ristorante di Palermo. I miei avvocati dimostrarono, planimetrie alla mano, che in quel ristorante non c’era mai stata una saletta riservata. Sollecitato a ricordare, disse che ero con Riccobono in un angolo appartato del locale, accanto ai bagni… Il boss di Partanna Mondello col suo noto ed eccellente confidente sotto gli occhi di tutti e attaccati ai cessi… ma vi pare possibile?”. A onor di cronaca va detto che Rosario Spatola finì espulso dal programma di protezione perché con i soldi dello stipendio dello Stato fece uso e traffico di stupefacenti. “Pentiti? Se vogliamo dare un valore etico morale al termine non credo proprio che si siano pentiti di tutti i misfatti commessi”.
Quando c’è stata la strage di via D’Amelio, lei dov’era?
“Prestavo servizio a Roma. Ero coordinatore Sisde della capitale e delle quattro province del Lazio. C’erano altri funzionari che operavano al centro Sisde di Palermo il cui direttore, il capo, era un ufficiale dei carabinieri”. Un colonnello dei carabinieri… Contrada ci tiene a precisarlo. E ce lo ripete per ben tre volte.
Ci sono elementi che fanno pensare al coinvolgimento di qualcun altro nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Lei è stato a capo dei servizi per tanto tempo… possibile che non si sia mai accorto di niente?
“Su questo argomento non posso e non sono in grado di esprimere nessuna opinione che abbia una concretezza… una validità”. Avrebbe bisogno di prove Bruno Contrada per dimostrare quello che pensa. Intanto la Corte di Strasburgo ha condannato lo Stato Italiano a risarcire con 10 mila euro l’ex superpoliziotto. Contrada non avrebbe dovuto essere condannato perché “il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un’evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all’epoca in cui Contrada avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato”. Insomma, si tratta del principio “nulla poena sine lege” per cui tra il 1979 e il 1988 il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era sufficientemente chiaro.
Sul processo di revisione, che proprio oggi ha avuto una battuta d’arresto forse definitiva: “Finché avrò respiro e vita – conclude Bruno Contrada – mi batterò per far emergere la verità”.
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