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FCA dopo Marchionne, che ne sarà di Mirafiori?

La scomparsa dell'ex ad di Fca pone seri interrogativi, soprattutto tra i lavoratori, riguardo alle strategie future del gruppo automobilistico in Italia.

Un’ora prima del cambio turno delle 14, davanti all’ingresso 2 di Mirafiori c’è già un gruppetto di operai. Indossano la casacca marchiata Maserati, l’unico brand del gruppo Fca (Fiat Chrysler Automobiles) che continua a essere assemblato nell’impianto di corso Agnelli a Torino.

“I miei amici mi vedono con addosso questo simbolo e pensano che sia ricco”, racconta uno dei lavoratori. “Lo sa quanto guadagno io? Appena 1.450 euro e sono qui da più di vent’anni”, gli fa eco un collega che, dal 2010 al 2015, ha vissuto in cassa integrazione. “Secondo me nel giro di quattro o cinque anni finiremo come quando qua facevamo l’Alfa Romeo Mito e lavoravamo tre giorni al mese”.

Il futuro, visto dagli occhi di chi vive lo stabilimento dove la Fiat è nata 119 anni fa, è ricco di pessimismo. “Negli anni ’70 questa sede impiegava quasi 60mila persone, oggi sono in 13 mila”, spiega Federico Bellono, segretario torinese della Fiom, il sindacato dei lavoratori del settore metalmeccanico. “In totale, a Torino, i dipendenti sono circa 30mila, tra i lavoratori di Fca e quelli di Cnh che si occupa di mezzi pesanti”. Ma a Torino si respira Fiat, e si lavora per lei, un po’ dappertutto. Il numero di persone impiegate nell’indotto della società, cioè nelle imprese che si occupano per esempio di componentistica, sfiora quota 50mila.

Nella conversazione di questo gruppo di operai in attesa di vestire tuta e guanti si infila il nome di Sergio Marchionne. Da un lato l’ex ad ha salvato l’azienda, dall’altro i suoi piani hanno causato scontento. Quello in cui un po’ tutti ora sperano è un rilancio, cioè che i nuovi modelli di auto vengano assegnati alla fabbrica di Torino. Ma il nuovo amministratore delegato è inglese: vorrà davvero puntare sull’Italia? In pochi rispondono a chiare lettere, ma gli sguardi degli operai sono emblematici. Uno piega la testa e allarga le spalle.

Fiat, dal baratro all’azzeramento del debito 

Per capire cosa aspettarsi dal domani di Fca occorre fare un passo indietro. A inizio millennio l’azienda torinese vive un periodo di forte crisi. L’avvocato Gianni Agnelli muore nel 2003 e si apre la caccia al suo erede. Alla fine, dopo un anno e mezzo, viene chiamato Marchionne. È giugno del 2004: “È una scommessa, ma paga – spiega Giuseppe Berta, storico dell’industria e amico personale dell’ex ad -. L’italo-canadese inaugura un periodo di rinnovamento radicale: invece che partire dal basso taglia i dirigenti che, secondo lui, sono troppi e inefficaci”.

Marchionne guadagna popolarità, non solo presso l’opinione pubblica ma anche tra lavoratori e sindacati; il periodo felice però s’interrompe bruscamente a fine 2008, quando la crisi economica globale è oramai realtà. Durante un incontro del Gruppo dei dirigenti Fiat, alla presenza di istituzioni e analisti, Marchionne tuona: “Dobbiamo rinnovarci o scompariamo”. Il diktat è chiaro. Per sopravvivere bisogna allargare i confini del business. Fiat accelera l’acquisizione di Chrysler e tenta la scalata a Opel, il brand di General Motors in Germania.

Mentre Barack Obama appoggia l’operazione, la cancelliera tedesca Merkel si oppone. Il piano di un grande triangolo globale s’infrange: l’accordo rimane a due, tra Italia e Stati Uniti, tra Torino e Detroit. Il rapporto rischia di sbilanciarsi verso uno dei due poli. Sono i mesi delle agitazioni sindacali e del braccio di ferro con Fiom: Fiat propone un accordo di seconda categoria che abolisce il contratto dei metalmeccanici e sopprime l’accordo del 5 agosto del 1971Collegamento esterno.

“A dicembre 2010 Marchionne mi spiegò il perché di quelle tensioni con Fiom – racconta Berta -. Mi disse che gli stakeholder americani erano disposti a lasciarlo andare avanti soltanto se avesse dimostrato di applicare le stesse condizioni di lavoro in Usa e in tutte le altre fabbriche del mondo, Italia inclusa”.

Gli scontri con i sindacati sono fortissimi: a gennaio 2011 gli operai di Mirafiori sono chiamati a votare il referendum sulle modifiche al contratto. Vincerà il sì, e Fiat applicherà condizioni di lavoro diverse da quelle stabilite da Confindustria, un passo che la porterà fuori dal gruppo industriale italiano. Per Berta sono gli anni di “Marchionne l’americano”, un periodo che dura fino a quando, nel 2015, sogna la fusione tra Fca e General Motors, un affare poi sfumato.

“Negli ultimi anni di Marchionne ha lavorato in maniera diversa, preoccupandosi soprattutto di assicurare al gruppo una posizione finanziaria molto forte”, dice Berta. “Ha cancellato il debito industriale e aumentato i livelli di redditività dell’azienda. Oggi fa più profitto Fca di General Motors, ma ci riesce perché ha ridotto gli investimenti”.

Conti in ordine, e un ghiacciolo di premio

Su una cosa sono tutti d’accordo: Marchionne è stato un grande manager, un ottimo analista, uno straordinario negoziatore. “Ha ottemperato al mandato dell’azionista”, commenta Berta secondo cui però il futuro successo finanziario di Fca non va dato per scontato. “Il sistema dell’auto è insediato da due spinte che lo cambieranno in maniera rapida e drammatica: la prima è tecnologica e va nella direzione di sostenibilità ambientale e innovazione. L’altra riguarda la volontà della Casa Bianca di imprimere una nuova forma di protezionismo introducendo una tariffa del 25% sulle auto importate negli Stati Uniti”.

Per gli operai di Mirafiori è ormai ora di entrare in fabbrica e cominciare il turno. Abbandonano l’ombra di alcune piante ed estraggono il tesserino per timbrare l’ingresso. Si avviano verso il tornello: “Qua fuori fa caldo, ma pensi dentro. Magari avessimo l’aria condizionata! La novità, da un anno, sono i ghiaccioli. Ce ne danno uno al giorno. Pochi mesi fa, in Germania, la Porsche ha dato 9 mila euro ai propri dipendenti come premio aziendale. A noi arrivano i ghiaccioli”.

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