35 anni fa, il 26 aprile del 1986, si verificò la peggiore catastrofe tecnologica dell'èra moderna. Quella notte esplose il reattore numero quattro della centrale nucleare di Chernobyl, situata nell’attuale Ucraina, allora Unione Sovietica.
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Pierpaolo Mittica e Alessandro Tesei, RSI News
L’esplosione rilasciò nell’aria tonnellate di polvere radioattiva che, trasportata dai venti, contaminò entrambi gli emisferi del nostro pianeta, colpendo più di 65 milioni di persone.
Per contenere il disastro e liquidare le conseguenze dell’incidente, dal 1986 al 1988, furono inviate 600 mila persone tra militari e civili, da tutta l’Unione Sovietica, i cosiddetti “liquidatori”. Nel giro di 6 mesi riuscirono a costruire un sarcofago di cemento e acciaio intorno al reattore esploso, lavorando in condizioni estreme, con livelli altissimi di radiazioni.
Molti di loro dovettero andare a ripulire il tetto del reattore dai pezzi di grafite e dai detriti radioattivi, senza protezioni adeguate. Potevano rimanere sul tetto al massimo due minuti, poi il livello assorbito di radiazioni era tale da poterli uccidere all’istante. Il loro lavoro fu fondamentale per far sì che la contaminazione radioattiva non si spargesse ulteriormente.
La maggior parte di loro nel tempo si ammalò e morì a causa delle radiazioni assorbite: tumori, leucemie, malattie cardiache. Dei 600 mila liquidatori oggi si stima che ne siano ancora vivi solo 60 mila. Grazie al sacrificio di quegli uomini, ormai dimenticati da tutti, il mondo fu salvato da una catastrofe ben peggiore di quella che fu il disastro di Chernobyl.
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