È di almeno 70 morti il bilancio delle violenze scoppiate venerdì notte tra militanti Rohingya e forze di sicurezza nel Myanmar. Lo ha annunciato il governo birmano. I militanti, armati di fucili e machete, hanno attaccato postazioni della polizia nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh. È la più grave escalation di violenza da ottobre.
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tvsvizzera.it/ri con RSI (TG del 25.08.2017)
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L’operazione è stata rivendicata su Twitter da un gruppo chiamato Esercito Arakan per la salvezza dei Rohingya, basato in questa zona montagnosa ai margini del Myanmar ed emerso di recente, con il proposito di combattere quella che definisce “oppressione dei Rohingya” da parte delle autorità birmane.
L’agenzia Mizzima ha riferito di attacchi coordinati contro più di venti stazioni di polizia e un assalto respinto a una caserma dell’esercito. Secondo un comunicato delle autorità, gli assalitori erano armati di fucili automatici e lunghe armi da taglio.
I militanti sono entrati in azione poco dopo la mezzanotte del distretto di Maung Taw, nell’estremo nord del Rakhine, in una regione dove i buddisti convivono con i musulmani dell’etnia Rohingya, pesantemente discriminata.
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Le autorità accusano dell’azione “militanti bengalesi”, senza menzionare la parola Rohingya: una prassi delle istituzioni birmane per negare legittimità alla minoranza, che è privata della cittadinanza e altri diritti fondamentali.
Poche ore prima delle violenze, una commissione voluta da Aung San Suu Kyi e guidata dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan aveva presentato un rapporto, raccomandando al governo birmano di intervenire con urgenza a favore dello sviluppo economico e della giustizia sociale nel Rakhine, per risolvere la violenza interetnica.
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Dallo scorso ottobre, quando analoghi assalti alla polizia di frontiera avevano causato 9 morti, parte dello stato Rakhine è teatro di un’offensiva da parte dell’esercito birmano, che ha portato almeno 87 mila Rohingya a fuggire in Bangladesh. Massicce violazioni dei diritti umani sono state documentate dall’Onu e l’area è chiusa agli osservatori indipendenti.
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