Carenza di medici, non è (solo) colpa del numerus clausus
Da anni la Svizzera deve fare i conti con una carenza di medici, soprattutto nella medicina di primo soccorso (specializzazioni in medicina generale e in pediatria). Il numerus clausus non aiuta, ma ci sono anche altre ragioni. Intervista al vice-direttore dell'FMH Philippe Eggimann.
“La situazione attualmente esacerbata è nota da tempo. Nel 2009 l’Osservatorio svizzero della salute (OBSAN) sottolineava già i bisogni crescenti nel settore sanitario”: lo scrive la direttrice della Federazione svizzera dei medici FMH in un articolo pubblicato su swisshealthweb.ch nel mese di gennaio 2023.
La strategia Sanità2020 del Consiglio federale entrata in vigore nel 2013 specificava che il “numero di posti di formazione continua – universitaria e non – dev’essere adattato ai bisogni”. Un tema che però è tornato anche nella strategia sanità2030Collegamento esterno, nella quale si legge che “l’aumento sinora registrato dei numeri della formazione non sarà sufficiente in futuro e la permanenza nella professione dovrà essere rafforzata, altrimenti si accentuerà ulteriormente la dipendenza dal personale sanitario formato all’estero”.
Non bisogna però solo guardare ai numeri, non sono loro gli unici responsabili della penuria di medici nella Confederazione, come spiega il vicedirettore dell’FMH Philippe Eggimann.
tvsvizzera.it: A causa della carenza di medici, la Svizzera deve fare appello a specialiste e specialisti stranieri. Come mai?
Philippe Eggimann: Occorre separare i medici che hanno appena conseguito il diploma universitario di medicina (formazione al termine della quale si ottiene un Master) da quelli che sono in formazione professionale (formazione post-universitaria, che dura almeno 5 anni per ottenere il titolo di specialista, quasi 10 anni per le specialità chirurgiche e 15 anni per la maggior parte dei capoclinica fino alla piena autonomia). Le scuole di medicina svizzere non formano un numero sufficiente di studenti e studentesse a livello di Master. Circa la metà di tutti coloro che si laureano in Svizzera, compreso in medicina di primo ricorso (ossia medicina interna e pediatria), sono medici che hanno conseguito la laurea all’estero, soprattutto in altri Paesi europei. La stragrande maggioranza di loro eserciterà stabilmente in Svizzera una volta completata la specializzazione, motivo per cui l’FMH sostiene da molti anni che dipendiamo dai medici con qualifiche estere.
Le e i professionisti che hanno seguito una formazione all’estero possono lavorare in Svizzera senza problemi oppure devono seguire una formazione supplementare?
La Svizzera riconosce praticamente tutti i titoli di studio universitari in medicina dei Paesi europei e di altri Paesi cosiddetti sviluppati. Il discorso è diverso quando si tratta dell’equipollenza dei titoli di specializzazione acquisiti al termine della formazione post-laurea. La MEBEKOCollegamento esterno (Commissione delle professioni mediche, ndr) esamina i diplomi e i titoli post-laurea stranieri nelle professioni mediche universitarie e nelle professioni psicologiche. Si basa sui trattati bilaterali tra Svizzera e UE e sulle direttive dell’UE sul riconoscimento delle qualifiche professionali, con la Legge federale sulle professioni mediche (LPMed)Collegamento esterno e la Legge federale sulle professioni psicologiche (LPsy)Collegamento esterno come parametri di confronto. La MEBEKO rilascia poi titoli equivalenti a quelli acquisiti con la formazione in Svizzera.
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Il numerus clausus nelle facoltà di medicina non dovrebbe essere abolito se c’è una carenza così marcata?
I Cantoni universitari sono sovrani quando si tratta di introdurre un numerus clausus o limiti al numero di studenti di medicina. Sono i Cantoni a finanziare quasi esclusivamente gli studi di medicina, che durano almeno sei anni e sono particolarmente costosi. Nella Svizzera francese non esiste un vero e proprio numerus clausus, ma le università di Ginevra e Losanna limitano i posti a partire dal secondo anno sulla base di un esame competitivo. La Confederazione è in grado di fornire un sostegno finanziario all’istruzione universitaria, ma non ha alcuna capacità formativa o decisionale in questo settore.
Cosa pensa la FMH del numerus clausus in questo contesto di carenza? Come può essere giustificato? È solo una questione finanziaria o anche una questione di qualità della formazione?
Come espresso in diverse occasioni nel Bulletin des médecins suisses, la FMH è contraria al numerus clausus. I criteri di selezione degli studenti di medicina hanno poco a che fare con le competenze necessarie per acquisire le conoscenze e, soprattutto, la metodologia che consenta loro di adattarsi agli sviluppi straordinariamente rapidi della medicina. Finora i medici hanno potuto progredire in modo tale da permettere gli enormi avanzamenti della medicina che ci hanno permesso di passare da un’aspettativa di vita di poco più di 60 anni a oltre 85 nel giro di una generazione.
Non va dimenticato che dopo circa sei anni di studi che portano al diploma di medico, ci sono ancora almeno cinque anni di formazione professionale (formazione post-laurea) per acquisire autonomia nelle discipline cosiddette non tecniche come la medicina di primo ricorso, per esempio, 10 anni per le specialità tecniche e chirurgiche, e quasi 15 anni per le competenze richieste alla maggior parte dei medici ospedalieri a cui vengono sottoposti i casi più difficili e complessi.
Per quanto riguarda il numerus clausus, è interessante l’esempio della Francia, dove il numerus clausus era stato introdotto negli anni ’70 per tentare di contenere i costi sanitari.
L’esempio della Francia
La Francia introduce nel 1971 il numerus clausus per cercare di limitare il numero d’iscrizioni alle facoltà di medicina, diventate troppo numerose. Il mestiere attira molte e molti anche grazie alle sicurezze finanziarie. Per diversi anni si porta avanti la politica di “troppi medici e troppi letti d’ospedale” e continua la stretta sui numeri chiusi negli atenei francesi. Nel 1991 il numero di dottori e dottoresse in Francia è ai minimi storici e i deserti medici sono una realtà ben radicata. E proprio da queste aree prive di ospedali, cliniche e studi medici si dissuadono i e le giovani dal venirci a lavorare: nessun futuro per loro, dicono. Nei primi anni 2000, però, ci si rende conto che la penuria è ormai problematica. Si alzano i limiti per la formazione, ma ci vorranno 10 anni per vedere i primi risultati. Non basta, però, e nel Paese si abolisce il numerus clausus nel 2021. Ma, ancora una volta, bisognerà aspettare 10 anni per vedere se sarà stato sufficiente. Intanto su tutto il territorio mancano professioniste e professionisti – generalisti in particolare.
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Un recente studio dimostra che un terzo dei giovani laureati abbandona la professione medica dopo la prima esperienza sul campo. Il mestiere di medico in Svizzera non è quindi più così attrattivo come un tempo?
No. E questo è grave. Quando un giovane o una giovane osserva un collega più anziano che fa questo mestiere da 10-15 anni, si rende conto di quanto sia impattante. Da una parte c’è l’aspetto amministrativo, che occupa una grande parte del tempo di lavoro. Tempo che invece potrebbe essere dedicato ai e alle pazienti. Dopo l’introduzione della nuova Legge sulla protezione dei dati e dell’obbligo di conservare gli archivi per 20 anni, la mole di lavoro per professionisti e professioniste è aumentata. Molti hanno addirittura deciso di gettare la spugna e chiudere la propria attività. Ci si ritrova così spesso a lavorare 50-60 ore alla settimana. Ci sono poi le formazioni continue, la lettura di pubblicazioni specialistiche, i seminari… Alla fine dell’anno il salario e il tempo da poter dedicare ai e alle pazienti risulta ridotto. Inoltre, c’è da dire che in Svizzera molti professionisti del settore sono guardati con sospetto dalla collettività che li vede come unici responsabili dell’aumento dei costi della salute. Quando invece non è così.
+ Un terzo di chi studia medicina abbandona la professione
Quali sono le possibili soluzioni?
È evidente che il numero di posti di formazione deve essere aumentato in modo massiccio, il che significa che il programma speciale della Confederazione per la medicina umanaCollegamento esterno, che mira ad aumentare il numero di posti di formazione a circa 1’350 all’anno, deve essere rinnovato e ulteriormente ampliato. Oltre ad aumentare il numero di posti di studio, però, è necessario anche migliorare le condizioni quadro professionali. Tra queste, l’attuazione della settimana di 48 ore negli ospedali, la riduzione dei compiti amministrativi e l’approvazione della riforma tariffaria TardocCollegamento esterno, solo per citarne alcune. L’FMH sta inoltre collaborando con le professioni sanitarie non medicheCollegamento esterno allo sviluppo di pratiche avanzate, alcuni dei cui servizi sono collegati alla pratica medica.
Nella Confederazione si nota che, più che in altri settori, ci sono molti dottori e dottoresse “senior” che continuano a esercitare anche dopo i 65 anni. C’è una spiegazione a questo fenomeno?
È un’osservazione molto interessante. Innanzitutto c’è l’aspetto della passione: è un lavoro che appassiona e al quale è difficile dire addio. Nel corso degli anni con i e le pazienti si creano dei legami anche molto stretti e molti professionisti sentono di poter ancora svolgere efficacemente il loro lavoro. C’è poi l’aspetto generazionale: molti babyboomer (generazione dei nati e delle nate tra il 1954 e il 1964, ndr) sono ancora operativi. Ad alcuni manca poco alla pensione, altri l’hanno superata da diversi anni, ma non avendo ancora trovato colleghi più giovani per la ripresa dello studio, non vogliono chiudere. Inoltre, se hanno aperto uno studio in località anche solo un po’ remote, decine, centinaia di pazienti dipendono da loro. E non se la sentono di abbandonarli. È la loro coscienza che glielo impedisce. Insomma, vorrebbero cedere l’attività, ma non possono. Noi dell’FMH incoraggiamo comunque colleghe e colleghi a lavorare fino all’età di 70 anni qualora se la sentono.
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