“Seguite il modello cinese o sarà una catastrofe”
Il Ticino, il cantone con il maggior numero di contagiati della Svizzera, apre alla Lombardia "solo per motivi di lavoro". La Lombardia, la regione più colpita d'Europa, permette ai suoi circa 70'000 frontalieri di varcare ogni giorno il confine italo-svizzero. Sentiamo l’esperienza dell’imprenditore italiano che ha una fabbrica a Beibei e il suo accorato appello: seguite il modello cinese, chiudete tutto e restate a casa.
Lombardia, come tutta l’Italia, chiusa e isolata da un decreto ministeriale. Ma per chi si mette in viaggio, ad esempio per entrare in Ticino, basta un modulo di autocertificazione in cui si dichiara di essere a conoscenza delle limitazioni imposte agli spostamenti e di avere motivi di lavoro.
“Sono distanti anni luce rispetto alla politica di emergenza adottata dal governo cinese”. Così reagisce l’imprenditore italiano Roberto Barbieri, che in Cina a Beibei, un distretto della provincia di Chongqing (che a est confina con la provincia di Hubei, la più colpita dal coronavirus), è titolare di una fabbrica.
Nella provincia di Chonqing (36 milioni di abitanti), nonostante confini a est con Hubei (la regione più colpita) gli infettati sono pari a quelli segnalati in Svizzera.
Roberto Barbieri non si capacita delle misure prese da noi per contenere il contagio. Beibei, 600’000 abitanti, non registra alcun malato, ci racconta. La città è nella provincia di Chonqing, 36 milioni di abitanti, che confina a est con Hubei (la regione più colpita con 68’000 casi e oltre 3’000 decessi). Nonostante questa vicinanza, Chonqing ha un numero di infettati pari a quelli segnalati in Svizzera che di abitanti ne ha poco più di 8 milioni.
“Non so dire se la strategia utilizzata in Cina sia l’unica efficace contro la diffusione del virus – continua Barbieri – ma i dati ufficiali dimostrano che la Repubblica popolare cinese sta uscendo dalla crisi, mentre il resto del mondo invece sta subendo il virus”.
“Ho vissuto in prima persona il superamento dell’emergenza del coronavirus in Cina. Non penso di sbagliare affermando che il recente decreto italiano indichi delle iniziative assolutamente necessarie ma insufficienti per arginare il contagio”. Non parliamo della Svizzera che ancora non ha preso particolari misure, se non quelle dettate dal buon senso.
Il cinquantunenne imprenditore di Lentate sul Seveso, che lavora a Barlassina, località tra Como e Milano, sa di cosa parla.
“Si deve assolutamente seguire il modello cinese se vogliamo uscire da questa crisi. In Cina la mia fabbrica è stata chiusa un mese. Da imprenditore non è facile ammetterlo, ma era una necessità. Fermarsi tutti. Stare chiusi in casa. Non uscire. Non permettere al virus di propagarsi”.
Molti dicono che l’economia non può piegarsi al virus. È vero, riconosce Barbieri, “vedere il lavoro di una vita andare in fumo è straziante. Non sapere cosa sarebbe successo alla mia azienda non è stato facile da sopportare ma ora posso dire che è stato davvero il minore dei mali. Adesso ritorniamo a lavorare e l’emergenza a Beibei sembra essere finita”.
“In Europa no. Non hanno ancora capito cosa devono fare: prima o poi, e Barbieri ne è convinto, dovranno prendere decisioni più drastiche. Nel frattempo, si è perso del tempo. E per l’economia sarà ancora più catastrofico”.
La storia raccontata da Roberto Barbieri
Tutto inizia il 21 gennaio, ci rammenta Roberto Barbieri. I media asiatici iniziano a parlare di emergenza da coronavirus. Il giorno dopo è l’ultimo lavorativo prima delle vacanze per il Capodanno cinese. “Quella sera organizziamo la cena aziendale. Vedo alcuni con la mascherina sul viso ma è normale, i cinesi la mettono spesso per difendere gli altri da piccoli malanni stagionali. Ma questa volta non è così. Mi raccontano che portano la mascherina per non essere contagiati dal coronavirus”. Sono i primi segnali. “Durante il tragitto verso il ristorante vedo formarsi le prime code davanti ai negozi. Mi dicono che è per acquistare le mascherine”.
Il tutto precipita velocemente. Il 24 gennaio, di mattina, 5 aeroporti in Cina chiudono e la città di Wuhan nel frattempo è già stata isolata dal mondo. Sarà poi la volta della provincia di Hubei. Chi è in viaggio o comunque non è a casa, a casa non può più tornarci. Intere famiglie sono separate da un giorno all’altro. Il ricongiungimento familiare non è possibile: chi è nella zona rossa ci resta e chi ne è fuori, ne resta fuori. Semplice e lineare come piace ai cinesi.
Barbieri ha già il suo biglietto aereo per tornare in Italia per le vacanze. Il 24 si imbarca e torna a casa in Lombardia. Nel frattempo, apprende che i suoi collaboratori, 55 in tutto, sono costretti a starsene chiusi in casa. Inizia il loro calvario. E questo nonostante a Beibei nessuno sia ancora contagiato dal virus della Covid-19.
I giorni passano. Il numero dei malati e dei decessi aumenta. La paura anche. Le autorità cinesi comunicano a Barbieri che la fabbrica dopo le vacanze resterà chiusa. Come tutte le attività del distretto nella provincia di Chongqing, che ha l’unico torto di confinare a est con la provincia di Hubei e la città di Wuhan.
“Inizialmente non sono molto allarmato, continua Barbieri. A poco a poco però inizio a capire la gravità della situazione”. L’imprenditore è sempre in contatto con la Cina, con i dirigenti della sua azienda. “I cinesi hanno preso l’emergenza con grande serietà e pignoleria. Per capirci“, spiega Barbieri, “gli ascensori vengono chiamati con uno stuzzicadenti per evitare di toccare bottoni e tasti…”. Non solo. “Se durante il periodo di isolamento la gente esce di casa, viene spesso raggiunta da un drone: una voce avverte le persone di tornarsene velocemente a casa”. Nessuno può gironzolare dove e come vuole. Ma i cinesi si adeguano.
Il racconto di Barbieri continua: “Tutti chiusi in casa. Nessuna eccezione, mi spiegano i miei dipendenti. Una volta ogni tre giorni un membro del nucleo familiare può lasciare casa per fare la spesa”. E ricordo ancora: “Tutto questo con nessun contagiato nel distretto di Beibei”.
A poco meno di un mese dalla chiusura della fabbrica, Barbieri chiede di riaprire. Il permesso viene dato il 24 febbraio, il primo giorno utile per riaprire le attività. Ma le autorità cinesi chiedono a Barbieri di presentare un’ampia documentazione. “Non come in Italia oggi, aggiunge Barbieri, che uno basta che si autocertifichi per sfangarla”.
Alcuni requisiti richiesti dalle autorità per riaprire la fabbrica:
Documento firmato dai lavoratori con dati personali: se durante le vacanze i dipendenti sono stati in viaggio, anche spostandosi di pochi chilometri, il dipendente è costretto alla quarantena.
Avere una scorta di mascherine per tutti i dipendenti che copra almeno il fabbisogno di 14 giorni.
Disinfettare tutti gli ambienti di lavoro.
Avere materiale per le pulizie per almeno una settimana; le pulizie vanno fatte due volte al giorno.
Termometri per il controllo dei dipendenti. I controlli vanno effettuati all’entrata della fabbrica, ma all’esterno.
Durante le pause pranzo sono vietate le conversazioni, si può solo mangiare. Meglio ancora se ognuno si porta il pranzo da casa e non ha nessun contatto con i colleghi di lavoro.
Oggi, la fabbrica di Roberto Barbieri lavora a pieno regime. Comunque, all’ingresso dell’azienda ai dipendenti viene controllata la temperatura, devono togliersi la mascherina e indossarne una nuova. La mensa non può superare il 30 % dell’occupazione. La fabbrica deve continuamente essere ventilata. Inoltre, tutto il personale deve essere informato sulle misure da prendere per il contenimento del coronavirus.
“La Cina deve fungere da esempio e l’Italia deve seguirle immediatamente, conclude Roberto Barbieri. Poi il resto dell’Europa e del mondo deve seguire l’Italia. Altrimenti sarà una catastrofe”.
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