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La democrazia selettiva della Svizzera

un povero che sta mangiando la minestra.
Mensa dei poveri: a lungo in Svizzera chi era classificato in determinate categorie sociali o finanziarie dai detentori del potere non ha avuto voce in capitolo. Walter Studer/Keystone

Cattolici, ebrei, atei, "senza Dio", poveri, criminali, attaccabrighe, vagabondi: la lista degli esclusi è molto più lunga. In Svizzera, oltre alle donne, tanti altri gruppi di persone erano privati del diritto di voto ed eleggibilità. Ci sono volute tante generazioni per integrarli politicamente. Per qualcuno, questo processo non è ancora concluso.


Dalla fondazione dello Stato federale nel 1848, il numero di aventi diritto di voto continua ad aumentare. Tuttavia, questo processo volto ad allargare la base dell’elettorato ha dovuto superare non pochi ostacoli. Le élite borghesi che detenevano il potere hanno fatto di tutto per non concedere il diritto di voto ed eleggibilità ai loro antagonisti. I padri della democrazia in Svizzera hanno frenato questo processo di integrazione politica con una spiccata creatività e dando prova di grande tenacia.

Escludere i rappresentanti della classe operaria

Inizialmente volevano negare il voto soprattutto ai cattolici conservatori e alle persone più povere, rappresentate politicamente dal Partito socialista, nato nel 1888. Il PS fu costituito per difendere gli interessi dei lavoratori. Nel 1848, solo gli uomini d’età superiore ai vent’anni avevano il diritto di voto ed eleggibilità. Un diritto che le donne, ossia la metà della popolazione, ottengono molto più tardi, nel 1971.

Ciò significa che alla fondazione dello Stato federale moderno solo il 23 per cento della popolazione aveva il diritto di voto. In altri termini, la Svizzera era retta da un “quarto di democrazia”. Dov’era il resto? Dov’era l’altra metà degli uomini?

Stando alla Costituzione federale, per avere il diritto di voto si dovevano soddisfare due requisiti: la libertà di domicilio e il pagamento delle imposte. In questo modo sono esclusi gli ebrei, che fino al 1866 potevano risiedere solo in due comuni in Svizzera. E i poveri, visto che non pagano imposte: era un vero e proprio censo elettorale..

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I cantoni fanno il bello e il brutto tempo

Nella Svizzera federale, la sovranità sulle leggi elettorali non spetta alla Confederazione bensì ai cantoni. E questi hanno definito le regole del gioco in maniera molto arbitraria. In lunghi elenchi hanno indicato le categorie di persone a cui era negato il diritto di voto ed eleggibilità.

Tra queste c’erano, per esempio, i poveri, i falliti, i detenuti, i criminali, i mantenuti, i malati di mente e i poco di buono. Nemmeno i residenti, ossia gli uomini provenienti da altri cantoni, avevano voce in capitolo in politica.

Ma perché escludere chi ha rinunciato all’eredità?

In alcuni cantoni, l’elenco era ancora più lungo. In quelli di Berna, Svitto, Friburgo, Soletta e Argovia, il diritto di voto e di eleggibilità era negato anche a chi era bandito dalle osterie, ossia agli ubriaconi, ai rissosi e a chi non pagava le consumazioni. A Ginevra e Neuchâtel, la lista comprendeva anche i mercenari, a Soletta i mendicanti e i vagabondi, in Ticino, chi commetteva brogli elettorali, un problema probabilmente diffuso nel cantone della Svizzera italiana.

“Se a decidere sull’estensione del diritto di voto fossero stati il governo o il parlamento e non i cittadini tramite voto popolare, le donne avrebbero potuto recarsi alle urne molto prima”, indica Adrian Vatter, professore di scienze politiche presso l’Università di Berna.

“La democrazia diretta è sinonimo di esclusione e di lenta integrazione di nuovi gruppi nei processi decisionali. È il paradosso del nostro sistema politico”, spiega Vatter. “La democrazia rappresentativa accelera invece queste tendenze”.

Detto in altre parole: la democrazia rappresentativa è più democratica della democrazia diretta per quanto riguarda l’integrazione nell’esercizio democratico più antico.

Il semicantone di Appenzello Interno ha addirittura escluso gli uomini che “non avevano frequentato un numero sufficiente di lezioni di religione”. In questo modo, chi deteva il potere politico aveva creato una “ghigliottina” per i peccatori e i “senza Dio”. O per tutti coloro che non godevano di grande popolarità.

In Vallese era escluso chi non aveva accettato un’eredità. Ma perché? Nel povero cantone di montagna, chi non voleva o non poteva assumersi i debiti del padre, veniva castigato con la perdita del diritto di voto ed eleggibilità. E così, questo diritto era riservato ai più fortunati e ai benestanti.

Nel 1874, la Confederazione mette fine a queste pratiche poco democratiche. Nella revisione totale della Costituzione federale, Berna prende in mano la situazione. Prima però, la nuova legge deve superare il vaglio del parlamento. Quest’ultimo vi si oppose per ben tre volte, nel 1875, nel 1877 e nel 1882.

Il censo confessionale, sociale e di genere è rimasto per buona parte del XX secolo. Nel 1915, il Tribunale federale dichiarò anticostituzionale il censo elettorale per chi non pagava imposte, sostenendo per contro l’esclusione a causa dell’indigenza. Dal 1971, anche chi era stato condannato per un reato o i debitori, che avevano perso il loro beni perché dediti all’alcol, potevano votare ed eleggere.

123 anni per tre tappe

Il 1874 segna l’inizio di un nuovo corso volto ad intergrare e non più ad escludere i cittadini. Stando al politologo Adrian Vatter, si nota un modello ricorrente, “un processo integrativo continuo che, da una parte, corre a fianco dello sviluppo delle istituzioni, dall’altra lungo le linee di frattura sociali del XIX secolo”.

Il professore dell’Università di Berna evidenzia tre tappe fondamentali: la prima, l’introduzione dei diritti popolari, ossia il referendum (1874) e l’iniziativa (1891). “Questi permettono di coinvolgere maggiormente i gruppi confessionali, soprattutto i cattolici conservatori”.

La terza tappa risale al 1919 con l’integrazione della classe operaia e del Partito socialista grazie al voto proporzionale.

Ma è una strategia astuta? I liberali, gli artefici della democrazia elvetica, fanno di tutto per escludere gli antagonisti politici. L’obiettivo principale è proprio quello di non condividere il potere. È un “gioco di prestigio” politico che finora ha goduto di poca attenzione.

Con questa strategia politica, il Partito liberale radicale prende due piccioni con una fava. Da una parte impedisce ai cattolici conservatori – i suoi nemici storici – di votare ed essere eletti, dall’altra esclude i poveri, indebolendo la base del Partito socialista.

Nel 1971, le donne ottengono il diritto di voto ed eleggibilità. “Tutti gli sviluppi integrativi sono stati accompagnati da un processo di emancipazione”, spiega Vatter. Nel 1977, tale diritto viene esteso agli svizzeri all’estero, nel 1991 ai giovani d’età compresa tra i 18 e i 20 anni.

La democrazia maschile, una rivoluzione

Quale giudizio dà Adrian Vatter al processo di integrazione in Svizzera? Il politologo fa prima di tutto una premessa storica e ricorda l’elezione da parte degli uomini del governo del canton Ginevra nel 1847. Oggi sembra un fatto scontato, allora “è stata una novità a livello europeo”.

Stando a Vatter, nel 1848 la Svizzera è stata la prima democrazia guidata da uomini, una democrazia nata in un periodo in cui i Paesi erano retti da regimi autoritari e monarchici. “È stato un passo avanti enorme anche se il diritto di voto ed eleggibilità interessava soltanto il 25 per cento della popolazione”, sostiene il professore dell’Università di Berna. Questo momento può essere considerato l’inizio della democratizzazione della Svizzera.

La linea rossa

Guardando a questa evoluzione da una prospettiva odierna, Vatter evidenzia due aspetti fondamentali. “Da una parte, la Svizzera rappresenta un paradigma per quanto riguarda l’integrazione politica. È riuscita a coinvolgere le minoranze in un Paese con culture e società molto diverse”, spiega Vatter. “Tuttavia è un sforzo volto a integrare solo coloro che parlano la stessa lingua e professano la stessa confessione”.

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Sono inoltre escluse dal voto circa 16’000 persone che a causa di durevole incapacità di discernimento sono sottoposte a curatela generale o sono rappresentate da una persona che hanno designato con mandato precauzionale. Kai Reusser / swissinfo.ch

Per il politologo, il discorso cambia con la popolazione straniera che parla una lingua diversa e con valori fondamentalmente differenti. “Per questo motivo, in Svizzera l’estensione del diritto di voto agli stranieri a livello nazionale non ha alcuna possibilità. Nell’UE, invece, è un diritto normale, almeno a livello comunale”.

L’assist dei cantoni

La revisione totale delle costituzioni cantonali potrebbero favorire un’apertura in questo senso. Solo grazie a una pressione sufficientemente grande “dal basso”, il diritto di voto a livello comunale potrebbe avere una qualche possibilità di successo in una votazione nazionale.

Attualmente i tempi non sembrano ancora maturi. Per i giovani, invece, le prospettive sono migliori. Grazie alle proteste per il clima e al successo storico dei Verdi alle elezioni nazionali del 2019, una parte della nuova generazione chiede di concedere il diritto di voto ed eleggibilità già a partire dai 16 anni. Le loro chance sono decisamente migliori, poiché sono un gruppo di popolazione che parla la lingua giusta e ha il passaporto rosso con la croce bianca.

A livello nazionale, il diritto di voto ed eleggibilità passa dalla naturalizzazione. Il percorso per ottenere il passaporto elvetico è irto di ostacoli per gli stranieri. Il processo è lungo, caro ed arbitrario. La decisione riguardo alla naturalizzazione spetta ai comuni.

In cinque cantoni, soprattutto della Svizzera francese, gli stranieri hanno il diritto di voto ed eleggibilità, ma solo a livello comunale e cantonale. Dei 2202 comuni in Svizzera, circa 600 hanno concesso questo diritto agli stranieri.


Traduzione dal tedesco: Luca Beti

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