Telelavoro permanente? Non per i frontalieri
Il semi-confinamento imposto dalla pandemia di coronavirus ha ampliato la consapevolezza che il telelavoro può essere più pratico, produttivo ed ecologico dell'impiego in sede. Tanto che Novartis, notizia di mercoledì, d'ora in poi offrirà la possibilità di lavorare da casa a chiunque lo desideri. Resta però qualche incognita, specie per i frontalieri.
La multinazionale farmaceutica, per quanto tra le prime in Svizzera, non è l’unica azienda ad aver deciso di concedere il telelavoro permanente.
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Il lavoro da casa piace ma va meglio regolato
Il nuovo approccio, per il colosso basilese, avrà conseguenze importanti sugli immobili del quartier generale e nel mondo. Per altre imprese pone invece un problema di natura legale e previdenziale.
Questione di contributi
Il servizio della RSI ci porta in una società di consulenza di Ginevra. Ha un centinaio di dipendenti, molti dei quali lavorano in Svizzera ma vivono in Francia.
Aperta a un impiego flessibile già prima dell’11 marzo scorso, l’impresa ha sempre fatto in modo che il telelavoro da casa non superasse la quota del 25%, poiché sopra questa soglia la società dovrebbe versare contributi previdenziali nel Paese di residenza del dipendente, con un aggravio per entrambi.
Durante la crisi sanitaria, questa regola è stata sospesa. Dovrebbe tornare in vigore entro fine agosto, ma nel frattempo gli impiegati ci hanno preso gusto, a operare da casa.
“Viaggiare avanti e indietro per i dipendenti è faticoso, si perde tempo negli ingorghi e non ha senso dal punto di vista ecologico”, osserva l’imprenditore Christophe Barman. “Per noi è davvero una cattiva notizia.”
Come se ne esce? La questione sarà discussa a Berna nei prossimi mesi.
Nel servizio RSI, le interviste a Barman e a Mario Tuor, portavoce della Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali.
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