Fusione UBS-Credit Suisse sarà effettiva tra una settimana
Le due banche hanno comunicato lunedì che il completamento formale dell'acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS sarà portato a termine il 12 giugno.
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tvsvizzera.it/mar/Keystone-ATS
L’operazione dovrà ancora essere avallata dalla SEC, l’autorità statunitense di vigilanza dei mercati finanziari. Altre autorità americane, come la Federal Reserve, hanno però già dato il loro assenso e lo stesso hanno fatto in Europa la Commissione Europea e la Banca d’Inghilterra.
Al più presto il 13 giugno le azioni Credit Suisse dovrebbero quindi sparire dalla borsa svizzera: in una nota odierna il gestore SIX ha già approvato il passo. A Wall Street il cosiddetto delisting potrebbe avvenire già il giorno prima, se l’acquisizione andrà in porto prima dell’apertura del mercato.
Tutto secondo i piani
L’acquisizione della seconda più grande banca elvetica da parte del numero uno del settore sembra quindi andare secondo i piani: UBS aveva annunciato di voler portare a termine l’operazione nel secondo trimestre e i dirigenti avevano poi precisato un termine fra fine maggio e inizio giugno.
L’operazione era stata annunciata di domenica, il 19 marzo, ed era volta a preservare Credit Suisse da un tracollo: l’istituto era alle prese con una grave crisi di fiducia che aveva portato a massicci deflussi di denaro da parte dei clienti. Quel giorno esponenti del Consiglio federale, della Banca nazionale svizzera (BNS), dell’Autorità federale di vigilanza dei mercati finanziari (Finma) e di UBS annunciarono l’acquisizione.
Per rilevare il concorrente UBS ha accettato di pagare 3 miliardi di franchi e di assumersi eventualmente 5 miliardi di perdite. Da parte sua lo Stato ha messo sul tavolo 259 miliardi, fra aiuti di liquidità della BNS (200 miliardi e altri 50 prima del 19 marzo) e garanzie della Confederazione (9 miliardi).
Un ‘no’ del Parlamento che non cambia nulla
L’operazione è stata effettuata al di fuori del normale quadro legale vigente (che pure prevedeva norme per i casi di istituti too big to fail, troppo grandi per fallire), in virtù del diritto di necessità, cioè quanto la Costituzione prevede per i casi come quello di una guerra: i proprietari dei due istituti, gli azionisti, non hanno avuto nulla da dire. Allo stesso modo il parlamento elvetico ha bocciato l’operato del Governo: riunito in sessione straordinaria in aprile ha respinto (a causa del voto negativo del Consiglio nazionale) i crediti di impegno di 109 miliardi chiesti dall’esecutivo.
Il no dei rappresentati del popolo non ha però in pratica avuto effetto, visto che il Consiglio federale aveva già sottoscritto accordi vincolanti, dopo aver ottenuto il via libera della Delegazione delle finanze del parlamento. Una procedura perfettamente legale, aveva sostenuto la consigliera federale Karin Keller-Sutter. Il tutto sarà ora messo al vaglio di una commissione parlamentare d’inchiesta.
Interessanti sono anche gli aspetti finanziari della vicenda, in particolare dopo che è emerso come UBS pianificasse da anni il rilevamento del concorrente. Il valore attuale degli attivi di CS supera infatti di gran lunga i 3 miliardi del prezzo d’acquisto: dalla documentazione inviata a metà maggio alla SEC emerge che UBS si aspetta di realizzare nell’acquisizione un utile contabile di 35 miliardi di dollari (32 miliardi di franchi al cambio attuale). Al di là del profitto immediato, si tratta comunque di far rendere in futuro quello che rimarrà di un istituto che – alle prese con vari problemi – era in perdita. A questo proposito il Ceo di UBS Sergio Ermotti ha parlato di inevitabili dolorosi tagli del personale.
Anche dopo il ridimensionamento – UBS vuole in particolare comprimere le attività di investment banking di CS – la nuova entità avrà dimensioni enormi se comparate con quella della Svizzera, che nel 2022 ha registrato un Pil di circa 770 miliardi. Sommando i bilanci di fine 2022 dei due istituti si arriva infatti a 1’635 miliardi di franchi. Sul fronte politico c’è quindi chi preme affinché UBS ceda dei comparti. Ma secondo Ermotti – alla testa di una banca salvata dallo stato nell’ottobre 2008, nel pieno della crisi finanziaria – più che la grandezza contano il modello d’affari e i rischi che vengono assunti.
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