La televisione svizzera per l’Italia

Il rovescio della medaglia della moda Made in Italy di cui la Svizzera va pazza

camicie
L'Italia è il secondo Paese di provenienza dei capi d'abbigliamento venduti in Svizzera dopo la Cina. Keystone / Christian Beutler

L’Italia è il secondo esportatore di abbigliamento in Svizzera. Il settore della moda Made in Italy è però regolarmente funestato da scandali. Sono coinvolte anche marche prestigiose, con laboratori di produzione fatiscenti, standard di sicurezza non rispettati e manodopera in nero. 

Gli svizzeri e le svizzere non si fanno pregare quando si tratta di acquistare vestiti. Nel 2023, il Paese si è classificato al secondo posto in termini di spesa pro capite per abbigliamento e calzature, subito dopo il Lussemburgo. In media, un uomo o una donna svizzeri acquistano 60 nuovi articoli ogni anno. 

La maggior parte dei capi venduti in Svizzera è prodotta all’estero. In testa figura la Cina, seguita dall’Italia. La produzione transalpina è particolarmente apprezzata per il suo famoso design, per l’immagine glamour associata alla haute-couture e anche per la sua qualità. 

Ma la realtà di alcune fabbriche di abbigliamento è tutt’altro che glamour. A Prato, in periferia di Firenze, l’industria dell’abbigliamento è dominata dai cinesi. Qui questa comunità è la terza più grande d’Europa, dopo Parigi e Londra. Gestisce gli innumerevoli laboratori che producono camicie, borse e cappotti Made in Italy, grazie anche a una forza lavoro precaria costituita soprattutto da persone immigrate provenienti dall’Africa e dal Pakistan. 

Per contenere ulteriormente i costi, alcuni padroni offrono al loro personale la possibilità di dormire nei locali. Una squadra del programma A Bon Entendeur della Radiotelevisione svizzera di lingua francese RTS è entrata in queste officine con una telecamera nascosta. All’interno, il caldo è soffocante, i sistemi di ventilazione sono difettosi e le condizioni sono antigieniche. 

Il servizio originale della trasmissione A Bon Entendeur (in francese):

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Audrey Millet, storica della moda che conosce bene la situazione di Prato, è scioccata da queste condizioni di produzione: “Molti laboratori impiegano la loro forza lavoro illegalmente. Ad esempio, si assume un operaio per 3 ore alla settimana, quindi con un contratto ridotto ai minimi termini, e tutto il resto viene pagato in nero, a 2 o 3 euro l’ora”. 

Abdul è uno di questi lavoratori. Sette anni fa ha lasciato la miseria della sua Costa d’Avorio per venire in Europa. Dopo un viaggio pieno di pericoli, si è ritrovato in Italia, senza uno status legale. Assunto da un padrone cinese in una fabbrica di abbigliamento, ha lavorato dalle 8 alle 20 per 30 euro al giorno: “Non avevo altre opportunità. Lavoravo anche la domenica. Eravamo in tanti a lavorare lì”. 

E le marche?

Prato non gode di una buona reputazione, quindi le marche dicono di non lavorare con questo tipo di laboratori più o meno improvvisati. Soprattutto quelle di lusso. Ma diversi casi dimostrano che la realtà è più sfumata. Nel 2014, Gucci è stata accusata di aver subappaltato ad aziende cinesi che sottopagavano la manodopera. Nel 2019, si è scoperto che Burberry e Prada avevano effettuato ordini a un fornitore, che a sua volta aveva subappaltato a un laboratorio in cui i lavoratori e le lavoratrici dormivano sul posto. Lo stesso vale per Armani nel gennaio 2024 e per Dior poche settimane fa. 

Per Abdul non c’è nulla di sorprendente: “Facevo vestiti che si è abituati a vedere nei negozi. Nike, Adidas… Altri dicevano di fare Gucci, altri ancora di altri marche. Nei negozi, ho visto le stesse camicie che facevo io”. 

Il prezzo determina la qualità di un capo? Per scoprirlo, il programma A Bon Entendeur ha testato sei modelli di t-shirt in cotone nero venduti in Svizzera, dal livello di base ai prodotti di lusso. E sorpresa: la più costosa del lotto, una T-shirt di Dolce & Gabbana a 550 franchi acquistata sulla piattaforma online bongenie.ch, arriva ex aequo del modello di Zara, pagata solo 10,90 franchi, 50 volte meno.

“È evidente che nel mondo del lusso il prezzo non è determinato esclusivamente dalla qualità e dai costi di produzione”, commenta Loïc Brunschwig, direttore di Bongénie. “Per definizione, il lusso non è solo qualcosa di cui si ha bisogno, ma qualcosa che si desidera ed è in questo ambito che le marche di fascia molto alta sono estremamente forti”.

Il direttore di Bongénie aggiunge: “Come rivenditore, per la maggior parte delle nostre marche non determiniamo noi stessi i prezzi finali di vendita degli articoli. Anche se la legge vieta alle marche di imporci le tariffe, ci vengono inviati i prezzi raccomandati e se questi non vengono rispettati, la marca ritirerà sicuramente i suoi prodotti la stagione successiva”.

In cima alla classifica di qualità ci sono due magliette di fascia alta: Kenzo (130 franchi) e Moncler (240 franchi). È il modello di H&M, il marchio più venduto del campione, a chiudere la classifica.

In Svizzera, i negozi di alta gamma Bongénie distribuiscono alcuni dei marchi coinvolti: Burberry, Gucci e Nike. 

“È spaventoso. È davvero deplorevole”, commenta Loïc Brunschwig, amministratore delegato di Bongénie, riferendosi alle condizioni di produzione in alcuni laboratori. “Potrei benissimo immaginare che queste condizioni siano praticate nel settore della fast fashion, perché per vendere magliette in Svizzera a 8 o 10 franchi, visti gli affitti e i costi, è ovvio [che ci vogliono] condizioni non etiche e orribili. Sono però piuttosto sorpreso che così tanti marchi di ultra-lusso – che non hanno bisogno di costi di produzione così bassi – utilizzino questi metodi”. 

In qualità di rivenditore, il gruppo afferma di fare grandi sforzi per controllare la tracciabilità dell’abbigliamento e degli accessori, nonostante la mancanza di trasparenza nel settore. 

“Chiediamo a tutte le nuove aziende fornitrici di compilare un modulo che include un codice di condotta con un certo numero di criteri in termini di impatto ambientale, condizioni di lavoro e condizioni sociali. E non entriamo in relazione finché questo documento non ci viene restituito datato e firmato”, spiega Loïc Brunschwig. 

Di tutte le marche citate nel servizio video, Adidas è l’unica ad aver risposto alle sollecitazioni della RTS. Afferma di non avere fornitori a Prato.

Traduzione di Daniele Mariani

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