Italiane e italiani in Svizzera di ieri e di oggi
Dall'esodo negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ad oggi il volto dell'emigrazione italiana in Svizzera è profondamente cambiato. Tre ritratti della Radiotelevisione svizzera per ripercorrere questa lunga storia.
Dal Dopoguerra all’inizio degli anni Settanta, complessivamente circa due milioni di italiani e italiane sono emigrati in Svizzera. Nel 1950 nella Confederazione ne risiedevano circa 140’000 (pari al 49% della popolazione straniera residente), vent’anni dopo erano 584’000 (54%).
La crisi petrolifera scoppiata dopo la guerra del Kippur del 1973 rappresentò la fine dei Trenta Gloriosi e diede un taglio netto all’emigrazione verso la Svizzera. Da allora e per alcuni anni iniziò un controesodo. Circa 200’000 persone ritornarono in Italia.
La seconda ondata migratoria dalla Penisola (la prima iniziò nella seconda metà dell’Ottocento) era composta principalmente da persone con un livello di istruzione relativamente basso, occupate soprattutto nel settore secondario. Per diversi decenni, nelle fabbriche e nei cantieri della Svizzera tedesca e della Svizzera francese l’italiano è stato un po’ la lingua franca.
Dalla Basilicata a Olten, passando per Napoli
Muratori, operaie, camerieri o… sarti, come Antonio Covella, arrivato in Svizzera nel 1966 dalla Basilicata, dopo aver fatto tappa a Napoli per imparare il mestiere.
“Sono arrivato qui a Olten il lunedì e il giorno dopo ho iniziato a lavorare in fabbrica”, spiega ai microfoni della RSI.
+ La Svizzera e le iniziative antistranieri di James Schwarzenbach
Nel 1972, dopo sei anni trascorsi nella fabbrica di pantaloni, compie il grande salto, aprendo assieme a colei che diventerà sua moglie un suo negozio di abbigliamento. Sono però gli anni delle iniziative antistranieri di James Schwarzenbach, la comunità italiana è molto malvista da una parte della popolazione svizzera e, inoltre, Antonio Covella risiede nella Confederazione da meno di dieci anni e non può ancora lanciare un’attività a suo nome. “Abbiamo perciò chiamato il negozio con il nome – molto più svizzero – di mia moglie, ovvero Fischer”, ricorda il sarto.
Una storia di successo, la sua. Come quella di molti altri italiani e italiane che hanno lasciato il segno in Svizzera. Negli anni successivi apre altri negozi e nel 1995, finalmente, una boutique con il suo cognome.
Se dopo la crisi petrolifera il flusso migratorio si è drasticamente ridotto, non si è però mai interrotto del tutto. Le cifre sono certo ben lontane da quelle dell’inizio degli anni Sessanta, quando dall’Italia emigravano in Svizzera quasi 150’000 persone all’anno.
Nei primi anni Novanta, erano circa 10’000. Poi, come si può notare da questo grafico, per oltre un decennio l’immigrazione è scesa a livelli molto bassi, per tornare a risalire prepotentemente con la crisi finanziaria del 2007-2008.
Oggi a emigrare non sono però più solo persone con in tasca al massimo un diploma di scuola media. I profili sono molto più diversificati.
“Cervelli in fuga”
Tra di loro vi è Cecilia Antonelli, esperta di cristianesimo antico e ricercatrice all’Università di Ginevra, giunta in Svizzera assieme al marito, fisico al CERN.
“Un po’ mi sento un ‘cervello in fuga’, nel senso che da quando ho cominciato ad avere dei contatti con Ginevra mi si sono aperte continuamente strade in questa città – spiega Cecilia Antonelli – con una ricchezza e una dinamicità che onestamente stento a credere che sarebbe potuto avvenire a Roma”.
L’immigrazione più “tradizionale” non è però scomparsa. La Svizzera continua ad essere una meta di predilezione anche per persone che non hanno per forza una laurea.
Ma non solo
Vincenzo Muià è uno di loro. Da qualche anno lavora come pizzaiolo in un ristorante di Klosters, nei Grigioni.
Come i suoi genitori, che negli anni Settanta erano emigrati in Svizzera per poi rientrare successivamente in Italia, anche questo maestro di tennis che si è riciclato come pizzaiolo ha deciso di varcare la frontiera. L’occasione si è presentata un po’ per caso. Nel posto in cui lavorava a Chiavenna, in provincia di Sondrio, era arrivato a cenare l’ex direttore del posto in cui lavora ora. “Si può dire chi mi ha preso e mi ha portato via”, spiega Vincenzo Muià. Una decisione che a distanza di tempo non rimpiange: “Restando in Italia, sinceramente non riuscivo. Gli anni passavano e non si riusciva a mettere da parte più niente”.
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